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Il medico di campagna
Jean-Pierre è un medico di mezza età che esercita nel territorio di un paesino di campagna nel nord della Francia; la sua routine quotidiana, tra visite a pazienti divenuti ormai amici, subisce uno scossone quando gli è diagnosticato un tumore al cervello. Costretto dalle circostanze a trovarsi un assistente che lo aiuti nelle incombenze lavorative, Jean-Pierre si vede affiancare Nathalie, un’ex-infermiera da poco laureatasi in medicina e desiderosa di apprendere il mestiere sul campo. Lo scontro di caratteri tra lui, burbero e ostile, e lei, paziente e accomodante, fa da preludio a un rapporto destinato a crescere insieme alla vita della comunità.
Le premesse non ingannino lo spettatore: non siamo di fronte al solito schema della commedia americana all’acqua di rose o del drammone a forti tinte. Il regista Thomas Lilti, con il suo Medico di campagna, evita ogni eccesso e costruisce un film malinconico, lento, quasi uno studio sociale e antropologico della provincia francese odierna che forse non sarebbe dispiaciuto a Balzac. Peccato, però, che la qualità filmica non si mostri adeguata alle intenzioni: la sceneggiatura episodica che prova a seguire diversi personaggi, ognuno con la propria storia, non riesce a coinvolgere e la regia, monotona e priva di guizzi, sembra incapace di ravvivare un copione come già detto balbettante su più fronti. Il medico di campagna cade, dunque, proprio dopo aver evitato gli ostacoli più evidenti: non gigioneggia, non cede alle facili trappole del sentimentalismo a tutti i costi, ma allo stesso tempo non affonda il dito nella piaga e si limita a suggerire un’atmosfera di pacate solitudini e di noia provinciale.