PHOTO
Il matrimonio che vorrei
La coppia scoppia. Anzi, è già scoppiata. Solida, all'apparenza, ma i muri parlano e dopo un po' pure le figure: Kay (Meryl Streep) non ce la fa più, vuole ritrovare la perduta intimità, perché col marito orso Arnold (Tommy Lee Jones) oramai è la stessa sterile, pragmatica solfa anaffettiva, abulica e anoressica. Si salva solo il desco, ma nemmeno questo è familiare: uova con bacon per lui, e la Domanda, l'unica rimasta: “Ti va bene l'arrosto?”. Tutto il resto è non: sesso non se ne fa più, l'amore è il terzo incomodo, le camere separate, e con vista sempre più scarsa sul sogno matrimoniale che fu. E allora… terapia, da un rinomato guru nel Maine (Steve Carell). Riusciranno a salvare quel che ormai pare insalvabile? Innanzitutto, ci devono andare, e Arnold prende l'aereo in extremis, molto nolente, scettico sulla possibilità di riuscita, sul quid salvifico della terapia. Sul divano si siede dal lato opposto della moglie, in mezzo i silenzi, i non detti e i non agiti di 31 anni di matrimonio vissuti pericolosamente: il pericolo dell'oblio, il pericolo della noia. La cura passa dal letto, con esercizi più o meno sessuali da portarsi in albergo: fellatio, fantasie, pulsioni, nulla vien risparmiato, ma non ci sono occhiolini gettati in platea, ammiccamenti pelosi o quant'altro.
Dopo Il diavolo veste Prada, il regista David Frankel rispolvera il minimalismo realista e veste la fine (e il nuovo inizio?) di una coppia come tante, sospesa tra un “glorioso” passato da riesumare e le odierne nozze imbiancate - e i sepolcri farisaici non sono peregrini. In delicato equilibrio tra dramma e commedia, la barra è a dritta su questa vita non illustre di un uomo e una donna non illustri: Streep e Lee Jones sono dei mostri di bravura, e il film gli sta addosso per non smarrire la retta via, quella che chiama le cose col loro nome - il sesso e i suoi derivati - e non teme di scendere a patti con la noia del suo oggetto d'indagine. Non si sogna più, non si cerca più la via di fuga (al bando le scappatelle), ma si deve fare esercizio, mettersi a tavolino, pardon, letto, per riattizzare i cocci di un matrimonio andato in frantumi.
Bergman avrebbe gradito (un filo, non esageriamo), spettatori meno illustri gradiranno come davanti a uno specchio fedele e dolente: Il matrimonio che vorrei è soprattutto il matrimonio che abbiamo, ahinoi. Frankel, pure lui, fa il suo bel esercizio: non di stile, ma di contenuto. Sì, possiamo vivere felici e contenti, ma solo davanti allo schermo.