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Cos'è Il Grinta? Un adattamento filologico del romanzo di Charles Portis? Un omaggio divertito alla versione cinematografica del '69, quella col leggendario John Wayne? L'ennesima rilettura (post)moderna del "genere dei generi" americani, il western? O il film più "classico" che i Coen abbiano mai girato? Probabilmente niente di tutto questo. La sensazione, semmai, è che i due fratelli abbiano voluto rinverdire le gesta dello sceriffo dal grilletto facile, Rooster Cogburn detto "il Grinta", a modo loro: affogando nel nichilismo la retorica della mitologia americana, livellando eroi e antieroi in misura delle loro miserie e dei loro peccati, condensando la narrazione non nei suoi momenti topici - sbrigativamente risolti, come nel caso del duello finale - ma nelle azioni di raccordo, se non addirittura nei "tempi morti" (si veda la lunga sequenza del tiro alle ciambelle, in cui lo sceriffo ubriaco sfida il ranger ferito al braccio).
Il lavoro di "riscrittura" dei Coen è dunque riconoscibile, soprattutto in riferimento alle ultime prove (Non è un paese per vecchi e A Serious Man più di Burn After Reading), che avevano già evidenziato il progressivo abbandono della poetica deformante e grottesca degli anni '90. Il loro cinema non si è per questo normalizzato. Semmai ha messo in luce la cifra recondita della loro ispirazione, debitrice dei temi dell'ebraismo (della colpa e del castigo), incline alla disperazione ed emotivamente piatta, a-patica. Se queste sono le premesse per accostarsi a un film come Il Grinta, i risultati lasciano perplessi. Innanzitutto l'ossatura della storia è articolata secondo una progessione (temporale, tematica e ideologica) lineare, che mal si concilia con l'insofferenza dei Coen per la narrazione "forte". Non è un caso se i nodi centrali del racconto - la relazione tra la piccola Mattie Ross e i due comprimari adulti, la resa dei conti con i ladroni brutti e cattivi, il finale - appaiono anche i più incerti, i meno incisivi, quasi sottotono. E' come se la coppia riuscisse sì a disattendere le "inclinazioni naturali" del testo, ma senza liberarsene mai, impantanandosi in un'operazione segnata da un attrito di fondo, poetica contro archetipi, film contro genere. A loro sfavore gioca la memoria viva del western, un codice condiviso (dal pubblico) di attese e risposte, la forza ottusa di una mito che resiste a ogni tentativo di smascheramento.
Si può fare, si è fatto, il grande western crepuscolare. E si son fatti - ma a patto di raccontare la frontiere in maniera radicalmente diversa - anche western senza fronzoli, glaciali, com'era il veneziano Meek's Cutoff di Kelly Reichardt. Vietato invece - la prova è questa - il western iconoclasta e classico insieme, svuotato e mitico. Da questo paradosso non si esce. Il nuovo film dei Coen non è brutto. La prima mezz'ora è di grande intensità, il controllo della messa in scena superbo e notevole è il lavoro degli attori - non tanto quello di Bridges, troppo gigionesco nel ruolo che fu (e che rimane) di John Wayne, ma di Damon e della piccola Hailee Steinfeld, prima vera eroina del loro cinema. Resta però un film sbagliato, squilibrato, a tratti stancante. Frutto di un malinteso simile a quello in cui è incappata l'Academy che - scambiando forse Il Grinta per un "classico" - lo ha candidato a 10 Oscar. A conferma di come l'America non abbia mai perso l'amore per il western. E di come, al contrario, non ne abbia mai avuto troppo per i Coen.