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Sam Raimi non è mai banale. Nemmeno quando decide di abbandonare il teatro degli orrori per sposare il marchio Disney e il classico cinema per l'infanzia. Nemmeno quando sembra assecondare mode e tendenze del mercato, come il 3D, il fantasy, l'adattamento lettarario. L'essere non-banale di Raimi non degenera mai: nessuna supponente autorialità. Lavorare dentro il sistema, adottare l'etica del compromesso, sempre.
Il grande e potenze Oz è un film per tutti: ai bambini regala l'incanto della fiaba e uno svago intelligente, costruito su una storia semplice, ideologicamente netta, e su personaggi di sicura empatia; agli adulti offre una riflessione non banale sulla responsabilità, la rappresentazione del potere e il potere della rappresentazione, oltre al piacere di tornare, un paio d'ore, bambini; ai critici una lezione di funambolismo estetico e poetico, un balletto sul filo teso di ragioni (in)conciliabili (opera vs. prodotto, sguardo vs. immaginario, autore vs. studios).
E' un prequel. Non solo rispetto al capolavoro di Victor Fleming (Il mago di Oz) ma anche a dispetto della saga letteraria di L. Frank Baum - 14 romanzi scritti tra il 1900 e il 1920, a incominciare da Il meraviglioso mago di Oz - in cui nessuna menzione viene fatta delle origini del protagonista. A occhio e croce un vantaggio: gli sceneggiatori Mitchell Kapner e David Lindsay-Abaire hanno licenza d'inventare, immaginando le regressive sorti di Oz, alias Oscar Diggs (James Franco), illusionista da circo con la morale di un politicante: sbruffone e bugiardo, narciso e dongiovanni. I suoi sogni di grandezza - essere un po' Houdini e un po' Thomas Edison (il trucco e la tecnica: la chimica del cinema, ça va sans dire) - non troveranno soddisfazione che nel parallelo mondo di Oz, dove il nostro viene catapultato prima e investito poi di una missione salvifica: riportare la pace scacciando l'oscuro dominio delle streghe cattive. Fin qui lo script. Nulla di trascendentale, piuttosto manicheo (specie nella seconda parte), persino sbrigativo nel trattamento di alcune situazioni e figure (le streghe Rachel Weisz, Mila Kunis e Michelle Williams non passeranno certo alla storia).
La regia di Raimi fa però la differenza: mantiene la struttura ingenua e archetipica del racconto per sfruttarne la docilità al botteghino e la natura porosa, lavorando essenzialmente sulla resa visiva e sui sottotesti. Così, a una prima parte ambientata nella realtà grigia delle miserie quotidiane e realizzata in b/n e 4/3, segue una seconda immersa nei colori vivi e il paesaggio fantasmagorico di Oz, dove sguardo e scenari si allargano alle bellezze della creazione (artistica) e alle meraviglie della tecnica (un 3D che finalmente mostra tutte le sue possibilità). Fantasia al potere, semplificando.
Ma il discorso portato avanti da Raimi stuzzica l'intelletto anche a un livello più profondo. Impossibile non vedere nel suo mago il fratello di Spider-Man, una "maschera" solo più lieta e giocosa dello stesso eroismo, ordinario e responsabile. Come il simbolo incarnato dal mediocre Peter Parker, anche il travestimento riuscito di questo cialtrone in uomo della provvidenza finisce per separare segni e Signori: Oz non è quello che crediamo che sia (l'Atteso della profezia) ma è comunque quello in cui crediamo.
E' una questione di efficacia retorica, non di bacchetta magica. Di ritrovata fiducia, non di tempo messianico. Di rinnovata speranza, non di palingenesi.
Poteva imbastire una critica al Grande Imbonitore, Raimi. Sceglie invece una strada meno facile: invita a credere. Non nei maghi, ma nella magia. Non nel mondo di Oz, ma nel cinema che tutto può. In chi millanta soluzioni per offrire prospettive. Semplicemente smaliziato, autenticamente politico. Il tempo del disincanto è finito: nuove illusioni cercasi nella realtà che langue.