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Atteso in tutto il mondo come titolo capace di sconquassare i botteghini, il sequel del Gladiatore (film che nel 2000 incassò 465 milioni di dollari worldwide, portando a casa 5 premi Oscar) è ambientato circa vent’anni dopo la morte di Massimo Decimo Meridio (Russell Crowe).
Stavolta, al centro dell’azione, troviamo Lucio Vero (Paul Mescal), figlio di Lucilla (Connie Nielsen) nonché nipote del già imperatore Marco Aurelio, morto assassinato: allontanato anni prima dalla madre, proprio per evitargli una tragica fine, Lucio vive ora in Numidia, terra che non riuscirà a difendere dall’assalto dei romani guidati dal generale Marco Acacio (Pedro Pascal).
Catturato e ricondotto a Roma da schiavo, Lucio viene acquistato come gladiatore dall’ambiguo Macrino (Denzel Washington). Sopravvivere nell’arena e in quella città ormai governata da perdizione e corruzione – sotto il comando dei due fratelli Geta (Joseph Quinn) e Caracalla (Fred Hechinger) – sarà un’impresa epica. Come il riscoprire nel suo passato la forza e l'onore necessari per riportare la gloria di Roma al suo popolo.
Con la consueta magniloquenza capace di mescolare dramma (fanta)storico e kolossal epico, Ridley Scott riprende le redini del suo blockbuster più fortunato (non certo la sua opera migliore, basti pensare a Blade Runner o Alien), film che all’epoca riuscì a segnare in maniera determinante l’immaginario collettivo.
Per sopperire alla logica assenza del protagonista di allora (anche se le gesta di Massimo Decimo Meridio rivivono in qualche flashback) il regista britannico 86enne chiama a sé due delle star maschili più in voga del momento, Paul Mescal e Pedro Pascal, e sulla falsariga del prototipo costruisce un coerente seguito dove a farla da padrone sono ancora una volta le trame di potere, intrighi e vendetta che animano tanto le gesta dei vari personaggi quanto le atmosfere di questa antica Roma nuovamente ricostruita dal fidato Arthur Max, in combutta con una CGI tanto impattante quanto smaccata.
Che poi è il paradosso tutto su cui poggia per intero il film, spettacolo indiscutibile (si rimanda alla prima scena di battaglia ambientata in Numidia, o alla ricostruzione del Colosseo durante un combattimento acquatico, delle scimmie mannare preferiremmo non parlare invece…) fiaccato però nella sua lunga durata (2 ore e 30 minuti) dai vari passaggi narrativi – sottolineati da dialoghi e performance a dir poco rivedibili (dalle innumerevoli smorfie e faccette di Connie Nielsen alle caratterizzazioni francamente troppo caricaturali di Geta e Caracalla), senza soffermarsi sulle scritte in inglese sopra le arcate all’interno di alcuni edifici (nel 200 dopo Cristo...) – che si alternano all’irresistibile prova di un Denzel Washington machiavellico e amabilmente sopra le righe, figura capace di prendere progressivamente più centralità all’interno del racconto, verso un epilogo che vorrebbe essere sorprendente ma che tutto sommato è abbastanza telefonato.
Altro aspetto, quest’ultimo, che potrebbe far storcere il naso allo spettatore più esigente, dubitiamo però possa rappresentare un problema per chi – e saranno la maggioranza – riempirà le sale in cerca di quel (nuovo) brivido “testosteronico” atteso ormai da 25 anni.