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Silvio Berlusconi sul set di Canale 5 a Milano, dove verrà registrato il primo programma del nuovo canale televisivo francese "La Cinq", 1986
C’è un equivoco: Il giovane Berlusconi non parla del giovane Berlusconi. Almeno sul piano anagrafico, che è comunque un accidente nella biografia – anzi, nella mitologia – dell’uomo che voleva (farci) vivere fino a 120 anni, che ha immolato il volto alla battaglia contro il tempo trasformandosi in maschera, che ha creato un mondo fondato sulla giovinezza (bellezza, successo, ricchezza) contro il vecchio sistema (televisivo o politico che sia).
No, il giovane Berlusconi della docuserie di Netflix è un trenta-quarantenne (ma davvero, nella seconda metà degli anni Settanta, avremmo definito giovane un rampante imprenditore già padre di famiglia? Per inciso: famiglia e affetti sono completamente esclusi dal racconto) e la sua epopea parte con il presagio della discesa in campo (l’ultima puntata, la terza, tocca il 1994, quando il giovane ha ormai 58 anni) e con l’ascesa nell’Italia prossima al grande riflusso. Prima grazie all’edilizia (le case come primo business), poi con le televisioni locali (se la Rai deve parlare ai cittadini, le emettenti commerciali devono rivolgersi ai consumatori: “la televisione è tutto ciò che sta intorno alla pubblicità” sottolinea il sodale Adriano Galliani), quindi il calcio (“nell’impresa non puoi alzare il bilancio, nel calcio c’è più teatralità” osserva il braccio destro Marcello Dell’Utri), infine servendosi della politica.
Di tutto ciò che è accaduto prima, cioè nell’effettiva giovinezza di Silvio Berlusconi, la docuserie non dice nulla: l’interrogativo su cui si edificava Il caimano (“Da dove vengono tutti quei soldi?”) resta non tanto insoluto quanto ignorato, l’inchiesta cede il passo a una biografia nella cui filigrana possiamo intuire un non-detto invero indicibile, i materiali d’archivio non svelano qualcosa di nuovo (difficile, considerando l’esposizione mediatica del soggetto) ma ribadiscono cose già note.
Ne è venuto fuori non tanto un santino dell’Unto dal Signore quanto un prevedibile ritratto a più voci (vero parterre de roi, niente da dire): capita se a parlare sono soprattutto i collaboratori più stretti (Fedele Confalonieri oltre a Dell’Utri e Galliani: spicca il solito silenzio di Gianni Letta) o chi ha lavorato per e con lui (Iva Zanicchi, Gigi Moncalvo, il pur sovversivo Carlo Freccero), tutti impegnati a dispensare un’aneddotica che poco aggiunge alla comprensione del personaggio (il dirottamento degli aerei sopra Milano 2 all’altra città satellite Milano San Felice, un alticcio Serge Gainsbourg costretto a indossare un doppiopetto al varo di La Cinq, versione francese di Canale 5). E capita se il ruolo dei guastatori è appaltato a figure che rappresentano i grandi rivali di Berlusconi: un giornalista non di area (Pino Corrias, tagliente: è l’unico a ricordare gli affari sbagliati, i debiti accumulati, gli interessi nel rapporto con Bettino Craxi), un comunista che si veste male (Achille Occhetto, colui che non lo vide arrivare) e uno straniero ostile (l’ex ministro Jack Lang, che si scontrò con François Mitterand affascinato da Berlusconi: certo è curioso osservare l’affinità elettiva nel ricorso alla chirurgia estetica).
Diretta da Simone Manetti, prodotta da B&B Film in coproduzione con la tedesca Gebreuder Beetz Filmproduktion e la francese Zdf Arte, Il giovane Berlusconi è allineata agli standard delle docuserie italiane di Netflix: riprese pulite, figure viste di profilo o decentrate, spazi quasi da showroom, montaggio incalzante, suddivisione lineare (Il pizzone, come il supporto magnetico per stampare le copie da distribuire in tutte le emittenti locali; La rivolta dei Puffi, a sottolineare quanto la programmazione televisiva fosse entrata nel quotidiano collettivo; L’Italia è il paese che amo, cioè l’incipit del celebre battesimo politico). Il problema, tuttavia, non è nella forma ma nella sostanza: non ci dice niente di nuovo, non scandaglia davvero le zone d’ombra, non risponde alla vera, grande domanda.
Il fatto che il montaggio si sia concluso poche settimane prima della morte è interessante: tutti ne parlano con l’affetto dovuto a chi non c’è più. Certo, prima o poi arriverà il momento di rivalutare Loro, il grande film maledetto di Paolo Sorrentino, non a caso sparito dalla circolazione perché, sì, davvero capace di attraversare l’anima nera di una storia italiana: “Tutto non è abbastanza”, si diceva in quel film. La stessa cosa che pensiamo alla fine di questa docuserie.