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Un giorno di ordinaria follia per Russell Crowe. Nel film del 1993 di Joel Schumacher, il borghese piccolo piccolo Michael Douglas perdeva la testa e scatenava la sua ira su arroganti giocatori di golf, nazisti, criminali ispanici, negozianti coreani. E tutto iniziava da un ingorgo stradale, come in questo Il giorno sbagliato di Derrick Borte.
Madre e figlia sono in macchina, hanno fretta: superano le altre auto usando la corsia preferenziale, e suonano il clacson a chi non parte subito quando il semaforo diventa verde. Ma si imbattono nello squilibrato di turno, uno psicopatico senza scampo. Si rifiutano di scusarsi e inizia l’incubo.
Crowe, imbolsito e incontenibile con il martello (la sequenza iniziale è selvaggia), non ha il carisma di Douglas in giacca e cravatta con la doppietta in mano. Ma nella prima parte il suo sguardo luciferino funziona. Peccato che nella seconda il regista lasci tutto lo spazio all’anima violenta del racconto. Le premesse erano buone: la frenesia del mondo moderno rende bestie, distrugge i rapporti umani, fa perdere i punti di riferimento che dovrebbero sostenere il vivere civile. Viene descritta una ferocia di gruppo da cui non ci si può sottrarre, in un gioco al massacro dove tutto è lecito.
Derrick Borte prova a restituire l’orrore del contemporaneo, condannando anche una vita sempre connessa, dove chi perde il cellulare è finito: conto corrente, social, rubrica, impegni della settimana… Nel mirino c’è l’America di Trump, i politici che fomentano l’odio, il classismo che schiaccia i deboli. A spiccare è la figura di una donna sotto assedio, che deve difendersi anche dal machismo.
Le intenzioni sono lodevoli, l’obiettivo sarebbe di dipingere lo scenario apocalittico del nostro presente. Ma alla fine gli unici a trionfare sembrano gli eccessi, i dettagli macabri. Con Russell Crowe non proprio al massimo del suo talento. Si trasforma in un serial killer visto e stravisto: duro a morire, con qualche battuta a effetto, però senza spessore né verità.