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Non c'è la Parmalat, eppure c'é. C'è Callisto Tanzi, alias Amanzio Rastelli (Remo Girone), e c'è Fausto Tonna, ovvero Ernesto Botta (Toni Servillo), ma c'è di più: Il gioiellino ha l'ambizione di andare oltre i nomi e cognomi del crac per provare a descrivere, se non decrittare, l'ambiente e il sistema industrial-finanziario tutto. Tentativo riuscito?
Andrea Molaioli stringe sui protagonisti, anche stilisticamente: i primi piani abbondano, le scene d'interni imperano e - sebbene le ottime prove di Girone, Sarah Felberbaum (Laura) e, più dietro, Servillo - il rischio fiction tv tracima.
Insieme, il regista evade dal campo medio su latticini & casini per evocare quello lungo, paradigmatico sull'Industria Oggi, senza indicazioni geografiche tipiche, tanto da sconfinare in Russia, dove si consuma la scena migliore, ad alto voltaggio simbolico, con Rastelli che fatica a muoversi nella neve, ma rifiuta l'aiuto.
In mezzo i conti non tornano: se la sostanziale ellissi sulle evidenze tecniche del tracollo è comprensibile, lo schema attanziale e il registro naturalistico appiattiscono narrazione e rappresentazione, cui fanno cattivo soccorso enfasi - la “pietra magica” donata da Laura all'amante Ernesto - e soprattutto l'incongrua, seppur storicamente documentata, visita di Rastelli e figlio a Berlusconi, con la Bibbia di legno in bella mostra e la sensazione forte del corpo estraneo.
Ben musicato da Teho Teardo, fotografato da Luca Bigazzi senza infamia né lode, Il gioiellino conserva più di una traccia dell'ambizione che fu, ma - complice una sceneggiatura traballante, se non ignava - il precipitato su schermo riesce solo a rifuggire dal manicheismo, non a trovare un ubi consistam poetico e ideologico, eccetto per l'inquietante finale sui titoli di coda.
Il sequel di Wall Street insegna: non è tempo per film sulla crisi, perché, se il focus rimane su volti privati ridotti ad attanti, il chiaroscuro cala sulle dinamiche, il buio sulle esternalità negative. E anche un gioiellino perde valore.