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Il tema è di quelli scottanti, trattandosi del conflitto arabo-israeliano. La storia di Mosab Hassan Yousef, figlio di uno dei principali leader di Hamas e informatore dei servizi segreti israeliani per oltre dieci anni, lascia il segno. L’adolescenza trascorsa nell’odio verso Israele, la prigione, la presa di consapevolezza della brutalità di Hamas e la successiva, problematica accettazione del ruolo di “infiltrato” dentro il suo stesso popolo, costituiscono i numerosi tasselli di un mosaico complesso e sfuggente che il regista Nadav Schirman compone alternando interviste ai due protagonisti (lo stesso Mosab e la sua controparte, il reclutatore israeliano Gonen Ben Yitzhak), ricostruzioni drammatiche e rari filmati d’archivio.
Incastonata all’interno di un contesto storico-sociale senza il quale non sarebbe forse immaginabile, viene fuori la cronistoria di un’amicizia paradossale, quella fra un agente ebreo e un informatore palestinese, unica scintilla residua di umanità là dove inganno, paura e violenza sembrano essere gli unici sentieri percorribili. Il film, naturalmente, sembrerà a certuni troppo filo-israeliano e a certi altri fin troppo filo-palestinese; la realtà, come spesso accade, oscilla fra i due estremi e se da un lato l’accento posto sui metodi terroristici di Hamas non approfondisce la situazione materiale del popolo palestinese, dall’altro lato la critica all’establishment israeliano è feroce e ci restituisce una nazione preda della diffidenza e sprofondata in una paranoia esistenziale apparentemente senza scampo (altro che Paul Thomas Anderson, vizi di forma e post-modernismi vari ormai alla frutta...).
Premio del pubblico al Sundance Film Festival 2014, infine, il film vanta persino Raz Degan nell’insolito ruolo di direttore della fotografia, in collaborazione con Giora Bejach e Hans Fromm, e il risultato è più che discreto.