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I tre protagonisti
del Dolce e l'amaro
La cosa più imperfetta del film di Andrea Porporati è, probabilmente, il titolo. Oltretutto ripetuto in chiave chiarificatrice un paio di volte durante il film. L'intestazione è infatti sbilanciata su due termini molli ed inadeguati a reggere il peso dell'architrave poetico/interpretativa di un'opera che parla di scelte etiche nell'Italietta mafiosa di non tanto tempo fa. Bastava lasciare l'intuizione allo spettatore. Ma andiamo oltre. Per esempio parliamo dell'emulazione scorsesiana, perché Porporati vuole raccontare una fettina di "cosa nostra", provando a spettacolarizzare stilisticamente un buon trenta, quaranta minuti di inizio film. E se il risultato non è da strapparsi i capelli (anche se la dinamica entrata nella casa altoborghese, con tanto di ingioiellate e fameliche signore, è ben girata) il tutto va relazionato alla relatività del contesto storico. Vent'anni di vita mafiosa di Saro Scordia non sono, come dire, paragonabili a un quartino di "eroiche" imprese di Riina, Provenzano o Buscetta. Insomma se Michele Placido illustra i fatti della Banda della Magliana in Romanzo criminale, dovendo necessariamente coinvolgere strati di potere nascosti tra le trame delle istituzioni nostrane, quindi ampliare visuale e grandangoli, rabboccare minutaggio e sequenze, il film di Porporati si concentra di più sul singolo individuo (la sua storia d'amore tormentata, il rapporto - tirato un po' via - con il compaesano diventato giudice), il relativo violento scorrimento di sangue e la personale affermazione criminale in un limitato contesto ambientale. E quando il gruppetto di mafiosi si sposta a Milano per rapinare una banca o uccidere un uomo scomodo a qualche padrino, il racconto prende sicuramente corpo, facendo capire i confini limitati in cui può scorazzare. In quel recinto, che sia chiaro grazie all'interpretazione di Lo Cascio e di almeno un paio di ficcanti comprimari non diventa fiction tv, Porporati sa come muoversi e ha in mano il timone del comando. In aggiunta prova a lavorare sul suono e sulla musica, nascondendo e usufruendo di fonti diegetiche e non (si veda l'uccisione del boss con la voce della Vanoni che va e che viene). Un po' come per Molaioli ne La ragazza del lago: in nuce si possono scorgere buoni propositi poetico/estetici per il loro futuro a breve. Qualche produttore più coraggioso sarà la chiave di volta.