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Pierre Niney in Il Conte di Montecristo
A parte il sempiterno Pinocchio, il cinema italiano tende a non valorizzare più il proprio patrimonio letterario. Il che non significa che debba smetterla di trasporre romanzi contemporanei, volgendo lo sguardo solo al passato (come se non fossimo già così in ostaggio della nostalgia), né tantomeno tornare ai fasti un po’ fané del calligrafismo.
Qualcuno obietterà: il servizio pubblico e le piattaforme, le serie e le miniserie, Il gattopardo e Sandokan in arrivo… Tutto vero. Semplicemente, nell’epoca dei budget monstre appaltati a produzioni talvolta discutibile, sarebbe interessante riconsegnare la letteratura al cinema espropriandola ai piccoli schermi. Poi, insomma, è vero che il feuilleton, di solito pubblicato a puntate su quotidiani e riviste, si accorda alla narrazione dilazione ed episodica della serialità, però basterebbe guardare al cinema francese per scoprire che un altro mondo è possibile.
Perciò, al netto dell’ammirazione per la qualità del prodotto, non possiamo che invidiare un kolossal come Il Conte di Montecristo, un sontuoso e scattante adattamento del classico di Alexandre Dumas che ha portato nelle sale francesi quasi 10 milioni di spettatori e incassato circa 100 milioni di dollari in tutto il mondo (e il romanzo è tornato in vetta alle classifiche). Che Mediaset abbia deciso di trasmetterlo con successo, spacchettato in due puntate, in prima serata su Canale 5 (ora disponibile sulla piattaforma Infinity), è sintomatico e, forse, avvilente (anche perché, inutile girarci attorno, l’intenzione era di bruciare il competitor Rai, la serie di Billie August con Sam Claflin in onda dal prossimo 13 gennaio).
Presentato Fuori Concorso a Cannes, Il Conte di Montecristo è operazione intelligentemente studiata a tavolino dopo il dittico I tre moschettieri di Martin Bourboulon, ancora una volta dovuta al produttore Dimitri Rassam e agli sceneggiatori Alexandre de La Patellière e Matthieu Delaporte (qui anche registi). A differenza del precedente, diviso in due film (la seconda parte, Milady, andò peggio della prima, D’Artagnan), i tre hanno deciso di offrire un’unica soluzione da tre ore (d’altronde il pubblico è ormai abituato a queste durate così lunghe).
E ne è venuto fuori un cappa e spada elegantemente muscolare, più esemplare che tradizionale: il ritmo è svelto e incalzante, l’andamento dritto e coinvolgente, l’adattamento fresco pur restando fedele al testo (nei limiti di una trasposizione che condensa più di un migliaio di pagine in poco meno di centottanta minuti). E la magnifica confezione non imprigiona un film spigliato che si affida molto ai primi piani di gente che generalmente mente, alle luci che scontornano le figure quasi a sottolineare l’adesione a un registro pop, al gusto rétro di una mascherata divertita.
Più giovane dell’originale, Pierre Niney si conferma il corpo ideale per incarnare i fantasmi del passato (Franz e La promessa dell’alba), riuscendo non solo a infondere energia al desiderio di vendetta e tensione umana al camuffamento (il breve passaggio in cui vediamo la maschera del Conte è decisivo per garantire un minimo di credibilità), ma anche a tenere conto delle meschinità, delle contraddizioni, delle violenze di un personaggio tanto iconico. Accanto a lui, parata di stelle transalpine (i villain Bastien Bouillon e Laurent Lafitte sono i migliori per distacco) più Pierfrancesco Favino come Abate Faria. E ora? Che questa nuova “collezione Dumas” ci porti un nuovo Tulipano nero?