PHOTO
Il contagio
Se avete voglia di leggere un’altra pagina dell’interminabile romanzo criminale di Roma, allora Il contagio (in concorso alle Giornate degli Autori) è il vostro film. E il vostro libro, visto che Matteo Botrugno e Daniele Coluccini (Et in terra pax) mettono in quadro l’epopea letteraria di Walter Siti, già Premio Strega ed esegeta/erede del realismo pasoliniano.
Sin dalla locandina, con i nuvoloni neri che incombono sui tetti capitolini e il Cupolone che svetta più minaccioso che gagliardo su tutti, sono riconoscibili i segni di quella Suburra romana, intrico melmoso di illegalità diffusa, dove mondo di sotto, di sopra e di mezzo si mescolano in forme sempre uguali e monotono, che una ricca narrazione letteraria-giornalistica e financo processuale ha fissato con una certa fortuna nella cronaca nazional-popolare.
Il circolo vizioso che solletica l’immaginazione mediatica fatto di sottoproletariato deviato, crimine organizzato, sponda politica e benedizione vaticana, viene qui tradotto nelle vicende di un gruppo di straccioni e marioli di Laurentino 38 che s’arrabatta come può - e come non potrebbe - per affrancarsi da una condizione esistenziale disperante, da cui si staccano per esigenze drammaturgiche quello che ce la fa, l’avido traffichino Mauro (Maurizio Tesei), e quello che no, il prostituto cocainomane dal cuore puro Marcello (Vinicio Marchioni), che tradisce la moglie Chiara (Anna Foglietta) per farsela con lo scrittore Walter (Vincenzo Salemme), ovviamente narratore della vicenda. L’ensamble è completato dallo spietato boss Carmine (Nucio Siano), dal ladruncolo naif Attilio (Daniele Parisi), da mogli, madri, vicinato e pasoliniani angeli di borgata, di cui Il contagio si propone come improbabile elegia.
Peccato che tra scelte di cast discutibili, funambolici movimenti di macchina – a partire dal dolly iniziale che stampiglia in una sola immagine il quarto stato romano protagonista del racconto – e altri barocchismi (da segnalare i commenti off artificiosamente lirici tratti direttamente dal libro), questo sguardo intellettual-borghese sulle periferie esistenziali della città e sui suoi eroi non trovi mai una quadra credibile tra dimensione corale, parabola socio-esistenziale e chiave nostalgica sfilacciandosi invece in un parapiglia narrativo di situazioni e personaggi accennati e subito abbandonati, che costringe gli autori ad afferrare la prima ciambella di salvataggio disponibile, la vaghissima cornice ideologica del teorema Mafia Capitale mossa, non meno artificiosamente, dal destino implacabile degli ex ragazzi di vita, il cui candore è solo un ricordo, l’effetto di un penoso riciclaggio sociale (effettuato al prezzo di un deturpamento morale).
Senza la sporcizia che pure ci si aspetterebbe di toccare con mano, lavata via da quello spirito da salotto che incombe ovunque, di squarci lirici e di voci sussurranti, di ralenti onirici e tediosi iconismi cattolici – l’angelo, il crocifisso, la lapidazione a mo’ di excusatio non petita (chi è senza peccato?).
Con le musiche di Paolo Vivaldi belle ma adatte per altre occasioni e quel refrain ramazzottiano che risuona limpido e tormentoso sotto la superficie delle cose: nato ai bordi di periferia/dove i tram non vanno avanti più/dove l'aria è popolare/è più facile sognare/che guardare in faccia la realtà…