Non tutti sanno che Valerio Ferrara è uno degli ultimi registi italiani premiati al Festival di Cannes: aveva ventisei anni quando, nel 2022, vinse alla Cinéf con il cortometraggio Il barbiere complottista, saggio di fine anno prodotto dal Centro Sperimentale di Cinematografia. A ventotto debutta nel lungometraggio con Il complottista, presentato nel Panorama Italiano di Alice nella Città, che espande quel film breve passando da diciannove a ottantacinque minuti e ne approfondisce tormenti e impacci, contraccolpi e conseguenze.

E conferma quel che già annunciavano le sue prime sortite da regista, non solo il corto all’origine di questo primo lungo ma anche l’altrettanto apprezzato Notte romana: lo sguardo empatico, forse perfino indulgente, verso chi sta dalla parte sbagliata della storia. Il che non vuol dire ragionare in maniera astratta sui massimi sistemi: piuttosto calarsi nella contemporaneità, allineare la teoria alla pratica, mettere in campo qualcosa che abbia a che fare con un mondo, un microcosmo, a cui possiamo credere perché autentico.

Il complottista
Il complottista

Il complottista

Probabilmente è proprio l’attendibilità del contesto socioculturale e antropologico il merito più rilevante del film: è sempre un sollievo vedere quartieri (il bar fuori dal tempo, le strade sconquassate, i locali periferici dove fare lezioni di ballo), interni (condomini senza ascensori, appartamenti confortevoli ma che hanno sempre qualcosa fuori posto), oggetti (le bottiglie di plastica, le birre, le lettere con le calamite, le bollette) che aderiscono davvero a una realtà precisa e non sembrano scontornati da un repertorio di cliché o dall’idea precostituita delle periferie.

Il complottista dichiara le proprie intenzioni sin dalla prima scena: un barbiere (Fabrizio Rongione, con quell’accento francofono che forse ne denuncia lo statuto da emigrato di ritorno) interrompe la sua routine professionale per telefonare a una trasmissione radiofonica rea di nascondere le verità agli ascoltatori. Per tutti, compresa la famiglia, è un onesto lavoratore dalle idee un po’ campate in aria e comunque mai prese sul serio, nonché facilmente suggestionabile (un mercante gli vende una presunta torcia militare, mentre la moglie lo guarda dolcemente pietosa: Antonella Attili è sempre una garanzia).

Tutto cambia quando si convince che il lampione davanti al negozio manda dei messaggi segreti con il codice Morse e la polizia si presenta a casa per arrestarlo (un errore: lo rilasciano poche ore dopo): nell’arco di pochi giorni, grazie a uno slavo esaltato (Ilir Jacellari) e a uno sfaccendato sessantenne riciclatosi come content creator (Fabrizio Contri in gran spolvero), diventa un faro della controinformazione.

Il complottista
Il complottista

Il complottista

Il film (scritto da Ferrara con Alessandro Logli e Matteo Petecca) evita di giudicare l’atteggiamento sospettoso e ossessivo del personaggio ma entra nella sua mente in modo molto efficace, cioè osservando gli effetti delle sue azioni – e delle sue scelte – sulle persone che lo circondano, squadernando così uno dei più lucidi apologhi sul Paese reale degli ultimi anni, sull’Italia del rancore e del risentimento, sul popolo dell’astensione (le elezioni sono pilotate, ça va sans dire) e sulla strumentalizzazione del potere (il politico decaduto che sostiene e foraggia i complottisti).

Non tutto torna, specialmente verso un finale che non s’incarica fino in fondo dell’acidità e preferisce lasciare aperte le porte del dramma interiore, e qua e là c’è qualche schematismo di troppo, ma Il complottista è un buon esempio di una possibile commedia (all’)italiana contemporanea, con gusto del racconto, sensibilità per il panorama umano, capacità di far piombare il particolare nel collettivo.