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Immediata l’associazione di questo colpo del cane a Uno studio in rosso, libro d’esordio della ‘serie’ di Sherlock Holmes (lo stesso regista la dichiara in sede di presentazione). Non tanto per argomento o genere, che scimmiotta giallo e thriller ma trova la sua vera natura nella parabola sociale e urbana di una Roma periferica, variopinta e intrisa di fatiche e dolori quotidiani. Quanto perché Il colpo del cane è nettamente diviso in due metà (asimmetriche): una prima parte dedicata a Rana e Marti, interpretate relativamente da Silvia D’Amico e Daphne Scoccia, due giovani innamorate, complementari nel carattere ma, entrambe, in difficoltà economiche; una seconda dedicata interamente al personaggio di Edoardo Pesce, un polimorfo Dott. Mopsi che, intravisto direttamente nella sua forma finale, accompagniamo poi passo passo lungo le origini, l’evoluzione e la fine.
Il film racconta la dis-avventura delle due ragazze, improvvisatesi dog sitter, e quella parallela di un ragazzo che, ancor più disperato, è ben più sfaccettato di uno stereotipico antagonista dal taglio di capelli inquietante. Il problema, però, che peraltro ha anche Uno Studio in Rosso, è che la seconda parte spiega particolari incompresi nella prima, ma che non sono comunque nodali nella vicenda. Piccoli misteri e curiosità, oltre a un approfondimento gradito, si intende, ma non essenziale.
Inoltre, Il colpo del cane si interrompe e riparte al momento di maggior conflitto, per ritornarvi brevissimamente alla fine della parabola flashback. Si torna al “dove eravamo rimasti” e ci si rimane per il tempo di una scena, prima dei titoli di coda. Tradisce un po’ la deformazione per il cortometraggio in questo il regista, un giovane e indubbiamente talentuoso Fulvio Risoleo, che compone il suo secondo lungo con due mediometraggi intrecciati, entrambi ricchi di spunti ma non legati da un comune, e profondo, motivo di conflitto. Potrebbe essere di radice sociale, ma non è abbastanza approfondito.
Alla fine, sembra quasi che si volesse elevare il cane a protagonista. Ma quel che funziona come esercizio di stile, non lo fa altrettanto a livello empatico, ed è un peccato perché i tre protagonisti, quelli umani, hanno carisma da vendere e non mancano di sottolinearlo. Tanto potenziale, la maggior parte del quale purtroppo, più che inespresso, rimane incastrato nel gioco di specchi che somiglia più a un film episodico, con due soli episodi, che al (comunque narcisistico) virtuosismo di Sir Arthur Conan Doyle. Elementare, Mopsi.