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Non è da rispedire al mittente Il colibrì. Intenzionalmente o meno, Francesca Archibugi, regista e sceneggiatrice con Laura Paolucci e Francesco Piccolo, riesce a tener fede al falso movimento, alla stasi dinamica dell’uccellino scelto da Sandro Veronesi per titolare il suo ultimo romanzo, Premio Strega – il secondo vinto – nel 2020.
Apertura della XVII Festa del Cinema di Roma, dopo l’anteprima al festival di Toronto, è il miglior film di Archibugi - non che ci volesse molto: Sdraiati (2017) e Vivere (2019) - da un lustro a questa parte: il motivo precipuo sta nel materiale di partenza.
Già dalla sequenza di apertura, la regista dimostra poca dimestichezza con il movimento, nonché con i moti d’animo: predilige, o comunque le vengono meglio, i primi piani, la fissità, e il sospetto come per Tre piani di Nanni Moretti, qui nei panni di uno psicanalista Daniele Carradori che interpreta assai similmente al suo giudice modellato da Eshkol Nevo, è la spiccata vocazione fiction della sinistra di ciak e di governo. Nonché, appunto, una certa qual immobilità (immobilismo?): gli sdraiati di Serra, i surplace, o giù di lì, di Veronesi.
Per fortuna sua, questa refrattarietà, questa riluttanza, questa disabitudine – cinematografica, esistenziale, ideologica? – al movimento, almeno un movimento di senso, è quel che richiede Il colibrì, che si muove di racconto, lo sfalsamento e intreccio di piani temporali, e non nel racconto, vale a dire al montaggio anziché nel quadro.
La sospensione Archibugi la sa filmare, sicché Il colibrì si concreta in tableaux semi-vivants, non perché i lutti si impastino all’esistenza, ma perché è questa a essere parziale, meglio, calmierata, contingentata, meglio ancora, astenuta. Virtù in capo a Marco Carrera, l’eponimo colibrì incarnato da Pierfrancesco Favino, per cui assoluto e intero non vanno a braccetto, l’amore e il sesso tantomeno. Malori, malesseri, sempre il benessere –Marco ha un tenore di vita che rende incongrua la sua reazione finale alla vincita a poker di 840mila euro – e a specchio perché non il “benore”, che è quello che il protagonista non finalizzerà mai con – ci arriviamo – Luisa Lattes?
Dai primi anni Settanta al futuro prossimo, i ricordi sono altrettanti salti, ed è in questa consecutio per asindeto che Il colibrì, in osservanza al romanzo, rivela le sue doti migliori.
Al mare della sua giovinezza, e di una vita, Marco conosce Luisa Lattes (Bérénice Bejo), amore mai consumato e mai estinto. La sua vita coniugale sarà un'altra, a Roma, insieme a Marina (Kasia Smutniak) e alla figlia Adele (Benedetta Porcaroli). Quanto è volgare scopare, la fedifraga Marina glielo getta in faccia: “Io scopo”, Marco invece no, lui per citare un precedente ruolo di Favino (2008, regia di Maria Sole Tognazzi) è l’uomo che ama, e si vota alla castità. C’è del classismo, in questa dicotomia, ehm, di scopo giacché Marina, ex hostess, è di origini balcaniche, ceto inferiore, con le unghie troppo lunghe. Che si deve contentare di una revanche dimezzata, e quindi sedata ovvero farmacologizzata, su Marco: di fronte alle proprie elusioni e ai propri tradimenti, il marito le ha creduto, “che è peggio”. Va be’.
Sicuri che, sebbene si voglia “storia della forza ancestrale della vita, della strenua lotta che facciamo tutti noi per resistere a ciò che talvolta sembra insostenibile. Anche con le potenti armi dell’illusione, della felicità e dell’allegria”, non sia Il colibrì romanzo di desistenza piuttosto che resistenza, di evasione borghese – si veda il finale – anziché invasione barbarica?
Ha un fascino, appunto, discreto tutto questo, ché intenzionalmente o meno Il colibrì rifugge dall’emozione, sterilizza i sentimenti, inibisce l’immedesimazione, e come risentirsene?
Nel cast anche Laura Morante e Sergio Albelli, i genitori di Marco, Fotinì Peluso, la sorella di Marco, e Massimo Ceccherini, Il colibrì non fa né caldo né freddo, ma non necessariamente è un problema.
Dicono dovesse dirigerlo Moretti, meglio l’abbia fatto Archibugi. Perché gli si possono trovare mille difetti, dall’invecchiamento dei personaggi assai perfettibile alle musiche di Battista Lena assai peregrine, ma è più riuscito di Tre piani, a cui invero rassomiglia un poco. Nella superficie, ovviamente.