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Amare significa accendersi, per poi spegnersi lentamente, fino a raggiungere l’oscurità, magari l’oblio. Lo sapeva bene Heinrich Heine, quando scriveva: "Mi chiamo Mohamèt, nacqui nell'Yemen, son degli Asra, quei che muoiono quando sono innamorati". La poesia è l’Asra, non a caso la preferita di Paula Beer, diva teutonica al pari di Sandra Hüller, nell’intenso nuovo film di Christian Petzold. Il cielo brucia, presentato all’ultima edizione del Festival di Berlino (Orso d’argento, gran premio della giuria), è adesso in anteprima italiana al Torino Film Festival.
Ancora una volta si torna a La donna dello scrittore, al rapporto tra immagine, parola e sentimento. Anche Samuel Coleridge, splendido il suo La ballata del vecchio marinaio, con il cuore giocoso di un padre cambiava l’ordine delle lettere del nome di sua figlia, da Sara ad Asra. È un dettaglio che fornisce nuove sfaccettature al cinema di Petzold. Le sue sono epopee di principesse e sultani moderni, in cui è la realtà a trasfigurarsi, seguendo la filosofia degli elementi. In Undine: un amore per sempre al centro c’era l’acqua, Berlino si svelava ammantata di magia, affondando le radici nella leggenda. In Il cielo brucia è l’orizzonte a diventare cremisi. Piove cenere dall’alto, la memoria corre alla tragedia dell’Olocausto (Il segreto del suo volto, sempre di Petzold), alla storia che non va dimenticata. Acqua, fuoco. Quella di Petzold è un’arte viscerale, legata alla terra, agli spazi. Si dimostra attento alle nuove forme di narrazione. Ambienta la vicenda in una casa nel bosco, vicino a una spiaggia.
La prima sequenza si apre con i due protagonisti in macchina, che guidano verso la vacanza percorrendo un viale alberato. Richiamo forse a Scappa – Get Out di Jordan Peele, omaggio (involontario, s’intende) a Bussano alla porta di M. Night Shyamalan. Muoversi in uno spazio ristretto permette di circoscrivere i confini, costruire un universo tra qualche parete e un giardino. Qui Leon sta cercando di finire il suo ultimo romanzo, ma senza ottenere i risultati sperati. Intanto il suo amico Felix realizza un portfolio per entrare all’accademia di belle arti. I due conoscono la bella Nadja, che li sveglia con le sue attività notturne. Si crea un equilibrio, ma l’armonia, si sa, difficilmente dura.
È attraverso relazioni all’apparenza semplici che Petzold ragiona sui tormenti della passione, sulla difficoltà nel portare le emozioni su carta. Che cosa significa essere un autore? Confrontarsi con le crisi (Leon sa di non star sfruttando il suo talento), saper incassare le critiche (Nadja attacca il lavoro di Leon), accogliere il mistero della quotidianità e provare a decifrarlo con i propri strumenti. Petzold è maestro nell’accogliere le ambiguità, concentrandosi su ritmi quieti e improvvise esplosioni di colore. L’estate è torrida, il cielo brucia. Come in Adagio di Stefano Sollima, in cui non si respira e un incendio minaccia la capitale; come in Te l’avevo detto di Ginevra Elkann, dove manca l’ossigeno e il sudore è un personaggio a tutti gli effetti. Il cielo brucia per Petzold, con una spinta biblica. È l’apocalisse? O forse è l’incapacità di avvicinarsi agli altri che distrugge ogni cosa? La risposta allo spettatore.
Un film sullo sguardo, sulla solitudine, sull’essere numeri primi al disperato inseguimento di un po’ di umanità. Un fulmine nella notte, che illumina la tempesta e ha l’ardire di non muoversi lungo binari convenzionali. Una curiosità: Il cielo brucia è anche un film del 1957 di Giuseppe Masini, che raccontava di un reparto dell’Aeronautica durante la Seconda Guerra Mondiale.