A caratteri cubitali rossi, su una parete dall’intonaco scorticato, si legge il mantra dell’azienda di Blanco: “Esfuerzo, equilibrio, fidelidad”. L’impegno: quello dei lavoratori. L’equilibrio: la caratteristica principale delle bilance prodotte dalla ditta. La fedeltà: nei confronti dei consumatori.

Qualità tenute insieme dal capo perfetto, cioè Blanco (cognome che gioca sulla purezza del colore con una semplice antinomia: solo in un’occasione viene appellato col nome di battesimo, Julio), che colleziona riconoscimenti ed è disposto a tutto pur di ottenere un nuovo premio di eccellenza locale.

Sempre pronto a risolvere i problemi dei suoi sottoposti purché non riducano la produttività e si dimostrino disponibili a spicciargli qualsivoglia faccenda, Blanco propugna l’etica della fatica ma ha ereditato l’azienda dal padre, produce bilance di precisione ma segue la lezione paterna secondo cui possono essere modificate, coltiva un matrimonio serenamente noioso mentre seduce e abbandona giovani innamorate che passano per l’azienda.

Il capo perfetto racconta i giorni che precedono la visita del comitato chiamato a giudicare l’operato di Blanco, giorni così rocamboleschi e spericolati da mettere in pericolo la conquista dell’agognato titolo: lo storico braccio destro è in crisi con la moglie e sbaglia le forniture, un licenziato si accampa fuori creando scompigli, la nuova stagista con cui finisce a letto nasconde un segreto. E intanto il figlio scapestrato di un anziano factotum si mette nei guai: che fare di lui?

Non siamo abbastanza edotti sulla società spagnola per sostenere che il suo film ne sia un’allegoria acida, ma ci sembra che l’obiettivo di Fernando León de Aranoa sia proprio quello di narrare un’intera nazione attraverso lo studio di un personaggio emblematico, esponente di un élite fotografata con glaciale eleganza.

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Blanco è affascinante e mellifluo, ammanicato e colluso, carismatico e opportunista, padre senza figli e capofamiglia paternalista. È la maschera di un sentimento nazionale esuberante e contraddittorio, un uomo conservatore che forse era a suo agio durante il franchismo e oggi si trova comodo nella democrazia, garante di un sistema logoro che si regge sulla logica del capitale e aduso alla corruzione.

È il perno e il dominus di una narrazione corale in cui si intrecciano personaggi sull’orlo di una crisi di nervi, colpi di mano e colpi di scena in abbondanza, un facile repertorio di immagini simboliche (la vecchia bilancia rotta collocata all’ingresso, la bilancia simbolo di giustizia a uso e consumo del marketing, la bilancia tatuata) e passaggi immediati (il filone sul rampante responsabile della logistica, per esempio).

Non è un caso che la Spagna l’abbia designato per la corsa all’Oscar al miglior film internazionale (anziché il favorito Madres paralelas, altrettanto critico sull’identità nazionale). Al di là della presenza fortissima di Javier Bardem, misurato e scatenato al contempo, c’è la capacità di raccontare una storia locale e globale con le cifre della commedia nera, della satira caustica, dell’umorismo moraleggiante.

Cavalcata verso le frontiere del pessimismo, Il capo perfetto scandaglia la provincia dell’impero misurandone i retaggi (il potere temporale, la sudditanza dei deboli, il sesso come merce) all’altezza della globalizzazione e delle sue storture, dall’assenza di solidarietà al cinismo del rendimento fino all’estremo del disprezzo per la dignità umana.

Un film forse più abile e scaltro che davvero convincente ma in grado di rappresentare lo spirito del tempo (anche pandemico) come le migliori commedie. E perciò amato in patria come testimoniano le venti candidature ai premi Goya (record di sempre), di cui otto solo per gli interpreti di un cast in gran spolvero.