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Il canto di Paloma
Fausta sembra una creatura di Gauguin. Di quelle tristi, però. Ventenne, vive nel Perù senza tempo alla periferia della capitale. Al capezzale della madre apprende dal canto di una nenia di essere figlia del dolore, ovvero il frutto di una violenza sessuale negli anni della dittatura. Un dolore indelebile trasmessole dalla genitrice attraverso il latte, una sofferenza che passa nella tradizione Inca sotto il nome di Teta asustada, la mammella dolente. Così ha voluto intitolare il suo secondo film Claudia Llosa (da noi Il canto di Paloma), italo-peruviana residente a Barcellona, classe 1976. Un titolo degno di un soggetto forte e delicato insieme, di una storia quasi incredibile proprio perché patrimonio di un popolo che vive di tradizioni calibrate su spazi e tempi intelligibili a pochi. Come l'usanza innaturale - che riguarda anche Fausta - di inserire un tubero nella vagina a protezione di stupri e infelici gravidanze che potrebbero derivarne. Il percorso dalla paura e dalla malattia alla libertà e alla guarigione per Fausta passerà anche attraverso i germogli di questo tubero. Senza esclusioni di sofferenze ma con la speranza di un futuro diverso da quello delle generazioni precedenti. Ritrovando l'originalità e l'attrice (Magaly Solier) di Madeinusa (opera d'esordio, pluri-premiata), Llosa sceglie di raccontare la vicenda della sua eroina con grande coraggio espressivo, costruendo un registro stilistico che si regge più sul canto che sui dialoghi, e su sguardi e volti incorniciati da splendide inquadrature. L'estetica al femminile del cinema latino contemporaneo trova in questo film una realizzazione meticolosa, volta a potenziare per immagini e atmosfere il realismo magico di un Paese sconosciuto ai più, e soprattutto trova un'opera complessivamente poco ammiccante verso le aspettative del pubblico: una virtù non da tutti, oggi. Teta asustada ovvero Il canto di Paloma ha incantato la Giuria all'ultima Berlinale decretandolo Orso d'Oro all'unanimità: è la prima volta per un film peruviano.