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Ibi è Ibitocho Sehounbiatou, una donna nigeriana appassionata di fotografia e di riprese video. Durante i dieci anni da lei trascorsi in Italia come immigrata irregolare, Ibi ha filmato a più riprese la propria vita documentando, a beneficio soprattutto dei tre figli rimasti in Nigeria, un’esistenza difficile e perennemente in bilico fra difficoltà e speranza. Recuperando e rimontando i filmati originali realizzati da Ibi, il regista Andrea Segre ha realizzato un documentario atipico, riprendendo un filo autobiografico e narrativo già tracciato da altri, senza per questo rinunciare a lasciare la propria impronta sulla scorta di una sobrietà di sguardo, lontano da ogni pregiudizio, che è la vera cifra stilistica del regista veneto.
Dopo l’intenso e bellissimo L’ordine delle cose, passato fuori concorso a Venezia, Segre torna quindi a battere dove il dente duole, aprendo un nuovo fronte sull’emergenza migratoria del Mediterraneo, la vera e indubitabile catastrofe umanitaria dei nostri tempi.
La sovrapposizione diegetica, nel nostro caso, è di un’evidenza impressionante tra il piano del narrato e quello del narratore. Ciò che noi vediamo è la vita di Ibi presso un centro di accoglienza a Castel Volturno, luogo dove la donna ha vissuto per dieci anni dopo aver trascorso tre anni di carcere a Pozzuoli per traffico di stupefacenti. Che cosa resta? Resta la memoria di una vita, priva di orpelli, nuda e scarna. Delicata e tenace come la speranza cui ogni uomo e donna si aggrappano per non affogare.