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I nostri ieri
Luca (Peppino Mazzotta), documentarista di mezz’età, separato dalla moglie, vive nella casa d’infanzia e lavora in carcere, dove, convince un gruppo di detenuti, all’inizio titubanti, a realizzare un film collettivo sulla storia di uno di loro. La scelta cade su Beppe (Francesco Di Leva) all’inizio taciturno e scontroso che, però, trova nel cinema la possibilità di ricostruire immagine per immagine il suo passato, rivivendo il delitto che lo ha portato dietro le sbarre.
Intanto Greta (Denise Tantucci), la figlia adolescente in partenza per l’America piomba a casa di Luca, mentre lui continua la lavorazione del film che incrocerà e cambierà anche il destino delle persone che soffrono per le conseguenze del delitto.
É il fluire ininterrotto e inarrestabile del tempo il fulcro del nuovo lungometraggio di Andrea Papini (La misura del confine e La velocità della luce, protagonista sempre Mazzotta). Il tempo come memoria, come peso immutabile che ritorna a galla, come sedimento di verità da inquadrare (letteralmente), rivelare alla coscienza e affrontare. Per superare socialmente.
Così al cinema (al meta-cinema, se volete), è assegnato il canonico potere rivelativo e paideutico delle immagini e dei suoni nel suo farsi e fissarsi. Un film come possibilità di risveglio, dunque, come ricollocazione di uno sguardo diverso sulla propria vita, con cui riscrivere sia il proprio vissuto sia il proprio ruolo sociale.
Davanti alla telecamera, infatti, tutti i personaggi, a partire da Beppe, ma anche dalla sua ex donna, dai compagni di cella e dallo stesso Luca sono costretti a rovistare in sé stessi, a ri-navigare in una madeleine dolorosa che diventa necessariamente da individuale, collettiva. Papini la compone con dolcezza e riserbo, senza sovraccarichi, con una regia, tra un primo piano e un elaborato piano sequenza, sempre calibrata, sempre un passo dietro i personaggi per lasciar che la delicatezza delle emozioni si manifesti da sé.
A stretto giro dopo la teatroterapia in carcere di Riccardo Milani (Grazie ragazzi), dunque, arriva un altro film sulla galera come luogo di riabilitazione sociale e non di sprofondo. Misurato, compassato, minimalista, forse gioca male alcune sue carte, ma si sostiene (e si sostanzia) nella recitazione in levare, essenziale ed essenzializzata degli attori e delle attrici. Cerca e trova, così, nel pudore del sottovoce, nel non detto, nel garbo misurato dei silenzi espressivi, degli occhi (notevoli gli sguardi in camera lacrimosi di Teresa Saponangelo) la sua cifra distintiva e la riconoscibilità artistica della sceneggiatura (lo stesso regista con Gualtiero Rosella, Manuela Tovo e Maria Roveran, anche attrice).
Intorno alle sue creature, per di più, il regista-ingegnere piemontese cuce una scacchiera visiva forse un po’ statica nella sua dualità, ma con una sua sostenutezza e poeticità. Tra il carcere e “il mondo di fuori”, tra il qui e l’altrove, tra la chiuso e l’aperto, tra i primi piani sui detenuti e i campi lunghi azzurro-verdi sul delta del Po’ e sul mare, la messa in scena, bandita ogni esibizione di violenza allestisce uno spazio (mentale) in cui ogni personaggio può cercare e ricostruire la propria identità. E non abbandonarla più.