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Quando in un gangster movie – terminologia antica, ma di questo parliamo – il momento migliore è quello in cui non compaiono i protagonisti maschili ma due donne e per di più non criminali, forse c’è qualcosa che non torna. Ed è un passaggio cruciale che dona spessore e reale interesse a I Molti Santi del New Jersey, prequel de I Soprano di David Chase, capolavoro della serialità e apogeo della quality television che dalla fine degli anni Novanta ha rivoluzionato il concetto di racconto televisivo.
È la scena in cui Livia Soprano, convocata a scuola dopo l’ennesimo guaio creato dal figlio Tony, scopre dalla psicologa dell’istituto che il ragazzo non si applica nello studio nonostante abbia un QI molto alto. La madre non ha intenzione di ascoltarla troppo, vorrebbe sbrigarla in poco tempo, ma poi scopre che Tony ha raccontato alla psicologa il suo ricordo più caro: accoccolato a letto con la madre che gli legge un libro.
Anche grazie alla sapienza recitativa dell’infallibile Vera Farmiga, questo momento permette al film di inquadrare con precisione quello che è il vero tema del film: l’educazione di Tony Soprano (Michael Gandolfini, figlio del compianto James: il brivido c’è). E quindi la costruzione di un personaggio che sappiamo già essere destinato a una tormentata complessità, con il rapporto con i genitori (madre anaffettiva e padre autoritario) il suo collocamento nel mondo criminale.
È fanservice, d’accordo, ma anche la reale ragione d’esistere di un film che sin dal titolo si propone non solo in quanto prequel ma anche come espansione di un universo creativo, con la centralità narrativa occupata da Dickie Moltisanti, zio e mentore di Tony (grande occasione per Alessandro Nivola).
È lui l’epicentro narrativo del film, che torna al 1967. Lo è da un punto di vista melodrammatico, perché si lascia consumare dalla passione fedifraga con la nuova, giovane moglie (praticamente una cover del modello Sophia Loren) del violento padre. Quindi sul piano socio-culturale, perché diventa rivale di Harold, un afroamericano che prima gli era sodale pur nella dinamica schiavo-padrone. E infine nel racconto di formazione di Tony, il cui padre è in galera e che Dickie “cresce” sapendosi adulto di riferimento.
Non è un caso che i materiali promozionali tirino in ballo il brand della serie madre (Who made Tony Soprano, A Soprano Story): è come se lo stesso film sentisse il bisogno di rivendicare un legame altrimenti poco esposto, con Tony chiamato a configurare il proprio racconto di formazione attraverso la rievocazione di Dickie ma in fondo ridotto a comprimario di un affresco interessato soprattutto al percorso umano di Dickie.
Una scelta forte e in un certo senso rischiosa che rende I Molti Santi del New Jersey autonomo rispetto alla serie e perciò fruibile anche da un pubblico nuovo e però poco incisivo nell’orizzonte del suo genere d’appartenenza, privo di uno sguardo in grado di renderlo potente a prescindere dalla mitologia pregressa. Per dirla brutalmente, Quei bravi ragazzi è una reference esplicita nel pensiero di Chase ma che non è alla portata di Alan Taylor, esecutore diligente senza molta verve.
È indubbiamente intrigante, magari più sul piano ideale che nei fatti, ma la promessa è mantenuta a metà: il crime procede all’interno di uno schema prevedibile tra qualche cliché, il discorso sulle rivolte di Newark del 1967 (in risposta alla violenza dalla polizia nel pestaggio di un tassista afroamericano) resta schizzato e strumentale, il potenziale mitico si disperde in una confezione che replica in superficie décor e colori del tempo. Per fortuna c’è lo strepitoso Ray Liotta in doppio ruolo.