È sparita la società nel quinto lungometraggio della coppia d’arte e di vita Gordon-Abel: nella loro, spoglia Bruxelles giallo-limone errano individui isolati, rassegnati, atomizzati. Cercano vendetta, salvezza personale, dimenticanza, amore. Tutti si riparano dalla società, anzi dalla socialità. Il bar, il cimitero, l’ufficio, la casetta oltre il fiume sono le roccaforti nelle quali si arroccano per veder scorrere la vita. Sono segnati da un passato traumatico, annaspano sull’orlo del vuoto esistenziale, sguazzano nella rassegnazione, sono scontenti del presente, ricercano un senso perduto nei gesti e nei volti, meno nelle parole.

Cattedrale e simbolo di questa inadeguatezza è L’Etoile Filante, un café semideserto con tanto di juke-box. A gestirlo lo smunto lungagnone Boris, in tandem con l’amata, vispa Kayoko. Il roccioso Tim ne piantona l’ingresso, guardiano per clienti che non entrano, ma nulla può quando una sera si presenta, pistola impugnata su braccio finto, un uomo pronto a uccidere il titolare del bar. Lo ha riconosciuto sul giornale, è stato lui ad averlo menomato anni addietro.
Stanata la copertura, Boris tenta la fuga, ma l’astuta Kayoko e il piantone architettano un piano pirandelliano: Tim incrocia il depresso, nullafacente (orto a parte) Dom. La somiglianza con Boris è impressionante. Lo scambio di identità è immediato. Boris finisce a nascondersi, Dom al bancone, ma Fiona, la moglie detective dell’ortolano, anche lei costretta a vivacchiare con le mani e la Coca Cola in mano, subodora il tranello: mettendosi sulle tracce del marito, finisce dritta all’Etoile.

In bilico (precario) tra dramma e farsa, tra slapstick ed esibita clownerie, il film dal mistery scivola nella tenerezza (il pianto dei due coniugi divisi dal separè nei bagni pubblici, i fiori coltivati da Dom), nella malinconia incontrollata, nell’umorismo amaro da risate a denti stretti. Gli ingredienti sono prevedibili: idealizzazione dell’amore, deformazione dei caratteri, ricorso agli archetipi, teatralizzazione dei corpi, straniamento recitativo, scarnificazione dei dialoghi a favore dei gesti, della ballabilità e delle pose. 

Il noir, così, diventa poco più che un pretesto (di soggetto) per una frustra microscopia sentimentale in cui l’umorismo comico e la deformazione di maniera sono la lente (opaca) con cui Gordon-Abel inquadrano e sbeffeggiano, in fondo e di sguincio, una società parcellizzata, omologata, in rovina.

Nonostante qualche passo godibile (le danze prima, le sparatorie poi nel bar), allora resta ben poco di misterioso (altro titolo italiano stonato) nelle pieghe della trama, molto di premeditato (sorvoleremo sui colori primari della fotografia di Pacale Marin), e tanto, troppo di estetizzato in una messinscena che ambisce a farsi personaggio, se non protagonista, per poter giungere ad una qualche verità tramite il sovvertimento della realtà.

Più exercices de style che poetica, dunque, più autocompiaciuta sperimentazione che graffiante satira, più artificio che autenticità. Più Jacques Tati, come si è scritto, che Aki Kaurismaki. Ma, intendiamoci, se al banconista Boris manca in toto l’estro buffonesco del miglior Hulot, la compassione proletaria del maestro finlandese qui è solo in potenza, mai in atto.