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I Mercenari 4
Finalmente sono finiti gli anni Ottanta. E con loro l’operazione nostalgia degli action americani. O forse no.
Perché c’è aria di di porte girevoli e pacche sulle spalle, perfino di sipario nel quarto capitolo della saga creata dalla penna di Dave Callanham in tandem con Spenser Cohen, Kurt Wimmer e Tad Daggerhart. Ma chi scrive non giurerebbe sul rimpasto totale. La sensazione è che, banalmente, più che dichiarazioni d’intenti e di facciata (di Stallone), sarà il botteghino a segnare vita, rotte e avvicendamenti dei mercenari, dopo il mezzo fiasco (soprattutto americano) del terzo episodio.
Sicuramente le stroncature preventive in America con tanto di divieti ai minori per questo quarto atto dalla produzione lunga e tormentata non aiuteranno i veterani dalla pistola fumante e dal cazzotto facile a godersi la pensione: i giorni di Arnold Schwarzeneger, si sa, sono finiti (primo film della saga senza l’ex governatore della California); Gunner Jensen (Dolf “Ti spiezzo in due” Lundgren) è braccato dalla miopia e dalle conseguenze dell’alcolismo; Toll Road con il suo orecchio tumefatto, è sempre più logorroico e inaffidabile (e uscirà anche malconcio dalla missione...). Soprattutto il capobanda Barney Ross, tormentato dagli acciacchi alla schiena, offre proscenio e tirapugni all’erede Lee Christmas, alle prese con le solite turbolenze d’amore, stavolta incarnate dalla fascinosa Gina (Megan Fox).
C’è bisogno di nuova linfa, dunque, per la banda, per la saga, ma anche per lo star system: detto della rediviva Fox, ecco 50 cent in versione Easy Day, nuovo cecchino che guarda di traverso Gunner, ma soprattutto lo sborone, donnaiolo Galan, figlio d’arte dell’ex Galgo.
La posta in gioco stavolta è ancora più alta, i sacrificabili sono chiamati a salvare il mondo; il vecchio nemico invisibile di Ross, Ocelot è pronto a farlo saltare in aria con la sua bomba nucleare, custodita su una portaerei americana in viaggio dalla Libia verso l’Oriente (guarda caso) russo.
Barney, però, muore subito, nella prima missione antiatomica nel paese africano che ha sepolto Gheddafi, ma è ancora sotto dittatura militare. Il capobanda finisce incenerito in Africa a bordo dell’aereo-squalo per una tragica disattenzione del figlioccio Christmas il quale, così, perde anche il comando della missione: a soffiarglielo è nientemeno che l’amata Gina.
Il manipolo ancora in lutto, tra epurati di lusso e giovani pistole, si deve affidare alla nuova condottiera e alla sua compagna d’armi: la sbarazzina Dash. Uomini, donne e stavolta anche l’agente della CIA Marsh (Andy Garcia) si catapultano in mare aperto per sventare l’incubo della Terza Guerra Mondiale.
Insomma, anche stavolta non mancano ricalibrature (di marketing), passaggi di testimone, colpi di scena, cambi di casacca, capriole narrative e ammicchi spudorati all’attualità.
Ad ogni modo, tra green screens perfettibili, frangenti action da videogioco di ruolo e boutade stradaiole, abbonda la solita sanguinosità (in vena più splatter che mai); latitano, però, nella consueta tempesta di lame e proiettili, umorismo (i veterani ispirano solo tenerezza) e novità di temi (il terrore della bomba a cui deve porre rimedio la “democraticissima” e bombarola America).
Nell’iterazione dell’identico, dunque, questo all star movie in vena piaciona e “femminista”
(con tutte le virgolette che volete) pesca a piene mani negli incubi della contemporaneità, rispolverando il sottogenere apocalittico più saccheggiato dal cinema moderno. L’obiettivo è chiaro: ingrassare il botteghino e, pur nel ricambio generazionale, crearsi presupposti per altrettanti sequel.Se l’operazione nostalgia pare tramortita (ma ripetiamo non finita), se la trama è identica alle tre precedenti se non per qualche variante, allora, gli spunti più importanti giacciono al di là della storia, nei ponti invisibili tra film e industria e nel cinema come lente di autoanalisi: Silvester Stallone si mostra ingobbito e al primo ruolo periferico all’interno della saga. Un divo al passo d’addio che scherza con l’età, flirta con la morte, cede la regia a Scott Waugh, la sceneggiatura a Kurt Wimmer, Tad Daggerhart, Max Adams, riflettori, scettro e ragioni delle future mattanze al coltello affilato di Jason Statham.
C’è spazio, poi, anche per una Megan Fox in versione Tomb Raider con trucco e piega impeccabili anche durante le mitragliate. L’amazzone mena e spara come i maschietti, ma non sembra aver risolto del tutto l’incubo della sessualizzazione che ne aveva segnato l’inizio di carriera.
In effetti, forse è proprio l’inclinazione di genere del film, così forzata e così poco amalgamata con certe premesse d’immaginario, a creare più disagi: a ben vedere Christmas in fondo è esonerato dal compito di guida, ma solo per poco perché la diva del Tennessee ammicca, ordina e incenerisce, tiene pure testa all’amante nerboruto, ma, a guardar oltre la superficie, si scopre che ha bisogno di lui e addirittura modella la sua personalità (divistica) in funzione del maschile e non viceversa.
Di più: rimane asfissiata, pilotata (vi ricordate Transformers?) senza scampo, anzi perfino con gaudio da un microcosmo tanto maschiocentrico quanto gerarchico. A voler proprio far cantare la frusta, la sua fida e incolore compagna d’armi Dash, poi, sembra per ora una sua semplice ombra, pronta a duplicare lo stereotipo.
Debolezze di una saga, in fondo, che prova a dar potere alle donne, ma solo se glielo consegnano e tolgono gli uomini, che prova a scavarsi nuovi spazi di sussistenza ma che pare ormai esangue, involuta, incapace di uscire dai suoi ranghi. Difatti torna sul finale con naturalezza quasi scontata ad aggrapparsi ai suoi pilastri come ai suoi cliché maschiocentrici.
Rigidezze, insomma, lo ripetiamo che, se apparentemente picconate, finiscono per essere confermare. E, date le premesse, era purtroppo difficile aspettarsi altro.