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I limoni d'inverno
Nel titolo c’è l’allegoria, con il frutto da far crescere nonostante il periodo più rigido, ma c’è anche l’allusione al cuore in inverno, perché Sautet è più di un faro in questa dolce, delicata, calda opera seconda di Caterina Carone, regista che ha evidentemente una passione per le vite al crocevia delle stagioni. E a sette anni dall’esordio Fräulein – Una fiaba d’inverno ritrova Christian De Sica, che qui si conferma l’attore raffinato e sensibile che troppo spesso rimane nascosto dietro la (comunque irresistibile) maschera del grande commediante qual è. Nelle mani di Carone, alle quali si affida con sicurezza, De Sica trova l’orizzonte della sua malinconia, la misura nella sottrazione, lo spazio in cui esprimere la nostalgia per un futuro mancato.
Professore in pensione, solo perché divorziato, immerso nella stesura di un libro sulle donne che hanno cambiato la storia, incontra lo sguardo della sua nuova dirimpettaia (la sempre splendida Teresa Saponangelo, che negli ultimi anni sta finalmente vivendo un evidente stato di grazia), che di lavoro si occupa del marito fotografo-star e che, come il vicino di casa, ama occuparsi delle piante nel terrazzo. E che nei suoi occhi riconosce qualcosa di simile, che ha a che fare con le rinunce, le perdite, i lutti.
Dai piani alti, dove cenare ognuno nel proprio terrazzino, si scende giù per rieducarsi alla vita, tra passeggiate nella natura e fughe al mare, abbracciando le passioni messe da parte o scoprendosi ancora disposti allo stupore: l’unico modo per (re)imparare a essere felici. Siamo in una Roma sospesa e in attesa, da una parte c’è quel che resta dei lotti popolari anteguerra e dall’altra dilaga la speculazione edilizia, il sole e il clima sono quelli degli autunni capitolini, l’inverno è vicino: sia fuori che dentro.
È un’inaspettata commedia gozzaniana, I limoni d’inverno, costellata da un romanticismo pudico che illumina un “breve incontro” capace di rivoluzionare due vite. Carone (anche sceneggiatrice con Alessio Galbiati e Anna Pavignano e i due autori del soggetto, Mario Luridiana e Remo Tebaldi) sta accanto ai suoi protagonisti, alle loro paure e ai sussulti emotivi, costruendo un racconto umanista, affettuoso senza diventare melenso, crepuscolare evitando di restarne compiaciuto, baciato dalle luci di Daniele Ciprì e dalle musiche di Nicola Piovani. Forse un po’ troppo tirato per le lunghe nella parte finale, quasi non volesse abbandonare loro e noi a un destino ineluttabile, con quel carosello di occhi diretti allo spettatore che postula il discorso sulla felicità come scelta (vedi Tolstoj) e rivendica un desiderio di armonia per elaborare il dolore, di ieri e di domani.