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I giorni dell'abbandono
Tutto il dolore. Tutta la solitudine. Tutta la rabbia. Olga è travolta da quel sentimento impreciso che ha "gli occhi verdi e si trastulla col cibo che ingoia", come Desdemona: la gelosia. Ma in lei si insinua senza mediazioni, senza avere il tempo d'essere metabolizzata. Iniettata, invece, direttamente nelle vene dell'esistenza dall'abbandono repentino, violento, ingeneroso - e mai prima sospettato - di Mario, marito ingegnere che sa molto bene architettare la sua uscita di scena e da casa. Poi questa rabbiosa sensazione cui Olga comincia a dare una forma si trasforma molto rapidamente nell'incapacità di razionalizzare il contrasto dei sentimenti dinanzi all'irrazionalità della fuga di Mario dal nucleo familiare. Poi Olga precipita nei tetrissimi ed irrazionali giorni dell'abbandono. E' difficile capire quando tutto si prende a pretesto per evitarlo. Una classica forma di autodifesa. E' facile, allora, sottrarsi alla realtà. E' facile soffrire e riversare sugli altri questa ondata di risentimenti mal sopiti. Diventa impossibile reagire. E il mondo crolla, i doveri crollano, i sensi e i tempi del proprio vivere crollano. Una densa storia d'amore, passione, sofferenza e rinascita viene generosamente offerta a Roberto Faenza dalla scrittrice Elena Ferrante (chi sia veramente nessun lo sa), per quel connubio che lega spesso questo regista al mondo della letteratura. Ma offrire una densa, bellissima storia tutta femminile non significa realizzare un denso, bellissimo film. E non significa essere ingenerosi con gli autori (qui sono, ad esempio, addirittura otto i responsabili della sceneggiatura, compreso lo stesso Faenza) quando si è costretti a confessare che le sofferenze per le debolezze strutturali ed artistiche del film sorpassano di gran lunga quelle condivise per la sorte della povera Olga, diventando le prime assai più immediate per lo spettatore. Si masticano dialoghi e si evocano immagini poco pertinenti al concentrato dramma della donna, che pure ha il volto di Margherita Buy e le sue indiscutibili doti d'attrice. Luca Zingaretti riesce ad incarnare il senso del collasso sentimentale e della sua irrevocabile condanna (lapalissiana la confessione: "ho semplicemente smesso di amarti"), ma non ispira quella funzionale e cinica cattiveria che dovrebbe essere scatenante la reazione fou per "l'abbandono" fou. Goran Bregovic, noto musicista nella vita e meno nella finzione, è il "metronomo" di salvataggio (si veda il film per capire) cui si aggrappa Olga per sopravvivere, per rinascere: ma quanto è infelicemente servito il suo personaggio e quanto pubblicitariamente smaccata è la sua apparizione finale in teatro. Poi ci sono due bimbi petulanti, una madre-suocera metaforicamente antropofaga, un cane cui è destinata un'impietosa fine e la saggia amica del cuore, collage umanitario indispensabile in queste storie familiari per spostare sentimenti verso la lacrima, la rabbia, la pietà. Bellissima Torino, ove la vicenda è ambientata: si spera possa concedere ai residenti giorni assai più felici e luminosi.