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I fratelli De Filippo
“Ma papà nostro dove sta?” si chiede Peppino, rientrato a Napoli dopo la prima infanzia in campagna. La domanda è quella, c’è poco da fare, e sottolinea il tema che attraversa tutto I fratelli De Filippo: fare i conti con un’autorità paterna – cioè “lo zio” Eduardo Scarpetta, il più famoso, ricco e acclamato attore e drammaturgo del suo tempo – nota a tutti ma occultata per tutelare un’ipocrita moralità, un’eredità artistica ricchissima almeno quanto miserrima fu quella affettiva.
È inutile negarlo: Sergio Rubini ha la sfortuna di arrivare dopo Mario Martone. La storia è piena di produzioni contigue per storie e temi, non sono i primi né saranno gli ultimi. Qui rido io è un’opera-mondo talmente profonda e monumentale che rischia di fare ombra a questo biopic, pur assai sentito e radicato nella sensibilità del suo autore (dietro ci sono sette anni di lavoro). Che racconta la storia dei tre figli illegittimi di Scarpetta, destinati a imporsi sulla scena nazionale.
Struttura circolare, con un incipit che si raccorda al finale: nel mezzo, flashback aperti da un sipario rosso, a indicare l’approccio didascalico. Il teatro è vita e la vita è teatro, come si vede anche nelle ultime scene, con i bambini Titina e Eduardo che, di notte, iniziano il fratellino al mistero della messinscena. E con una chiusura (spoiler? No) che testimonia l’apogeo di una famiglia che si fa ditta.
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Al confronto non si sottrae Giancarlo Giannini, un mattatore che negli ultimi anni ha trovato rare occasioni per misurarsi con personaggi alla sua altezza: nella sua sapiente caratterizzazione, certo meno impetuosa rispetto a quella di Servillo, Scarpetta è un anziano capotribù più egoista che carismatico, descritto con tratti tirannici funzionali a motivare il desiderio di rivalsa e l'ambizione dei figli.
Tra un rimprovero a Peppino perché ineducato e uno schiaffo a Titina ritenuta stonata, il conflitto massimo è con Eduardo, definito “la punizione mia” perché in mancanza del cognome dal padre ha preso l’arte, a discapito del legittimo discendente, Vincenzo (Biagio Izzo, ben servito). Ma quello tra le due parti in causa è anche lo scontro tra un borghese che non sa amministrare l’economia sentimentale e tre figli che desideravano soprattutto l’amore di un padre normale.
In circa due ore e venti minuti (montaggio di Giogiò Franchini), I fratelli De Filippo (scritto da Rubini, Carla Cavalluzzi e Angelo Pasquini) ricostruisce una storia di riscatto puntando a un pubblico largo, tenendo sottotraccia tutto l’apparato intellettuale di Martone e lasciando affiorare elementi più immediati all’interno di uno schema molto tradizionale.
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