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I figli della mezzanotte
Allo scoccare della mezzanotte del 15 agosto 1947, mentre l'India dichiara l'indipendenza dal Regno Unito, due neonati vengono scambiati in una clinica di Bombay: Saleem Sinai, figlio illegittimo di una donna povera, e Shiva, erede di una coppia benestante, vivranno l'uno il destino dell'altro, intrecciando inesorabilmente le proprie vicende a quelle turbolente del Paese asiatico.
Sono I figli della mezzanotte di Deepa Mehta, dal bestseller di Salman Rushdie, qui co-sceneggiatore. Dal 1917 al '77, una lunga, variopinta carrellata di volti, emozioni, aneliti e dolori privati e pubblici insieme: off Bollywood, ma le spezie effetto madeleine sono le stesse (il chutney verde), l'esotismo per noi occidentali pressoché analogo, sebbene magia ed epos non conoscano frontiere.
Meno radicale e antagonista di Water, a tratti farraginoso e incerto su modi e tempi del realismo magico (lo stile è uniforme), un affresco storico-sociale multiprospettico e plurifamiliare, cui manca nella piacevole colonna sonora il nuovo pezzo degli Strokes: Call It Karma Call It Fate. Titolo buono per la sinossi, soprattutto, titolo rivelatore per Deepa Mehta, indiana trapiantata in Canada, qui alle prese con l'affabulazione occidentale e la storia patria: un pareggio senza infamia, anzi, e con qualche sassolino coraggiosamente levato dalla scarpa (la repressiva Indira Gandhi non fa una bella figura). Stappiamo?