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I cinghiali di Portici
Lo sport come medicina dell'anima? Ma figuriamoci: nessun compromesso etico, nessuna "bella storia" con edificante finale. Soltanto cinema che racconta uno spicchio di vita, anche piuttosto amaro: alla periferia di Portici, minori a rischio (molteplici rischi) nella struttura di recupero, susseguirsi di fatti di quotidiana esistenza marginale, vizi privati e pubbliche virtù. Buoni propositi, tanti: quelli di Ciro, operatore ruvido che vuole occupare i ragazzi con la sua passione, il rugby, diventando il coach di una squadra a modo suo affiatata. Straniante, giocarlo questo gioco sulla sabbia scura e sporca del litorale napoletano. Ma poetico: quando i ragazzi si allenano inconsciamente inseguendo un branco di baby cinghialini in fuga, il film opera prima di Diego Olivares, quarantenne napoletano dalle origini forensi, ha un guizzo di originalità, un tocco di poesia realistica. La sua è una cinepresa pudica, il pudore di chi non commenta ma racconta. Sono bravi anche tutti i ragazzi del coro, alle prese con il futuro che forse non c'è, con passioni e ricordi, speranze e ribellioni, molta apatia e qualche delicatezza. Il gioco diventa il rituale della sopravvivenza, in una terra che nulla ha a che spartire con questo sport dalle origini anglosassoni. L'hic et nunc dei "cinghiali di Portici" è soltanto trasferire aggressività e debolezze nella competizione e nello spirito di squadra. Non per vincere improbabili campionati, ma solamente per tentare di vivere.