PHOTO
House of the Dragon
The future is unwritten, the winter isn’t coming yet: duecento anni prima dell’ascesa e caduta di Daenerys Targaryen, della battaglia di Grande Inverno e di tutto quanto abbiamo visto in Game of Thrones, eccoci di nuovo a Westeros sotto il dominio della dinastia Targaryen, signori incontrastati dei Sette Regni per quasi tre secoli. Una stabilità che inizia a vacillare dopo la morte della Regina Aemma Arryn, in seguito all’ennesimo tentativo infruttuoso di mettere al mondo un erede maschio. Il Re Viserys I Targaryen, sconvolto, compirà un atto rivoluzionario, nominando nuova erede al Trono di Spade la primogenita Rhaenyra, creando malcontento tra gli alleati del Regno che mal vedono una donna come sovrano, e il sommo disappunto di Daemon, collerico e impulsivo fratello di re Viserys, che a lungo aveva accarezzato la speranza di sedere sul Trono. Le alleanze che rendevano invulnerabili i Targaryen cominciano a intaccarsi, complice anche il rifiuto da parte del re di sposare la figlia dodicenne della potente casata Velaryon; l’equilibrio è sempre più instabile, e troppe pedine in gioco possono comprometterlo definitivamente, scatenando la guerra civile.
Prime Video chiama (Gli anelli del potere), HBO risponde: scontro epico tra emittenti, con gli spinoff delle avventure che hanno conquistato l’immaginario collettivo degli ultimi vent’anni, tra cinema e televisione. Se i fans di Tolkien sono reduci dalle estremamente fedeli trasposizioni jacksoniane, quelli delle opere originali di George R.R. Martin non hanno ancora digerito il controverso finale di Game of Thrones, di fatto farina del sacco degli showrunner; Martin, estraneo al processo creativo dopo le prime stagioni, ha recentemente affermato di essere a buon punto con il penultimo dei due libri che chiuderanno le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco “dal suo punto di vista”. Ma conoscendo i tempi orientali dello scrittore americano, sarà meglio concentrarsi su quest’ultima produzione HBO, perfettamente calata nella continuity dello show TV a cominciare dal bellissimo tema musicale di Ramin Djavadi, e parzialmente ispirata a Fire and Blood, il primo di due volumi storiografici dedicati alla storia dei Targaryen. Dinastia, si sa, di belli e dannati, eterea bellezza e lucida follia, l’unica casata ad avere un’arma che in tempo di guerra significa potere: i draghi.
Iniziamo subito col dire che a mancare non sono solo i Lannister, o gli Stark: a mancare è soprattutto l’effetto sorpresa. Nel 2011 la comparsa su schermo di Game of Thrones fu deflagrante, con una crudezza visiva e una violenza (anche) psicologica molto distante dai contesti tolkieniani che avevano invece imperversato al cinema nel decennio precedente. L’epica di Tolkien, favolistica e rarefatta, lasciava il posto alla carne e al sangue, all’incesto, ai massacri, a battaglie non più riprese dall’alto nel loro insieme, ma nel dettaglio: battaglie che lasciano il segno, da una parte e dall’altra. La caducità dei personaggi di Game of Thrones, tutti a modo loro in lotta per la sopravvivenza, va di pari passo con la loro amoralità: in un sistema monarchico e feudale non ci sono manicheismi, ma cortigianeria e ragion di stato. Una zona d’ombra ideale per far prosperare i dualismi di personaggi dalle molteplici sfaccettature, in una dimensione fintamente storica ma autenticamente politica, come politiche sono le decisioni spietate di certi personaggi della serie.
Ecco, House of the Dragon da questo punto di vista non si distacca dal predecessore: le dinamiche, gli intrighi, perfino gli scontri all’ultimo sangue, sono esattamente gli stessi a cui siamo abituati da anni. Impossibile, anche volendo, far leva sull’effetto sorpresa. E allora, se già è chiaro come andranno le cose e chi ne farà le spese, meglio dare al pubblico ciò che vuole, lasciando inalterata la qualità della messa in scena, che resta al solito magnifica: cura dei dettagli stratosferica, scenografie lussureggianti e computer graphic all’altezza. Il budget (milionario) c’è, e si vede di puntata in puntata. L’arma in più sono le caratterizzazioni, merito degli showrunner Ryan Condal e Miguel Sapochnik, profondi conoscitori della narrativa martiniana (Sapochnik ha anche diretto alcuni episodi della stagione ammiraglia); House of the Dragon risulta accattivante (pur se incanalato nei consueti registri di GOT) grazie a personaggi sfumati e non banali, su tutti un sovrano logoro nel fisico e debole nel carattere come Viserys, capace nel giro di poche puntate di scelte esecrabili e decisioni tanto generose quanto rovinosamente sbagliate. Una fragilità perfettamente resa dalla fisicità e dalla recitazione di un navigato attore come Paddy Considine, uno dei pochi nomi noti al grande pubblico del cast insieme al subdolo consigliere del re Rhys Ifans e a colui che regge l’intera stagione, quel Matt Smith tanto credibile nei panni di Filippo di Edimburgo quanto ammaliante nei panni della mela marcia di casa Targaryen.
Daemon è l’antieroe perfetto: grande combattente, pessima condotta di vita privata, smisurate ambizioni, fascino indiscutibile. Sin dalle prime puntate è palpabile la tensione erotica con la nipote Rhaenyra (i Targaryen sono noti per non farsi troppi problemi con l’incesto, nonostante la cosa a lungo termine crei qualche problema nella loro tenuta mentale), punta dell’iceberg di una chiara intesa tra i due, del loro scoprirsi affini. La scoperta, da parte di Rhaenyra, del proprio istinto guerrafondaio e interventista, così lontano dall’attendismo paterno, è il culmine di un processo di formazione e di crescita anche letterale: a metà stagione, un salto temporale giustifica il cambio di interprete della principessa, dalla bravissima Milly Alcock alla più matura Emma D’Arcy. Perfetta anche Alicent Hightower (Olivia Cooke), figlia del consigliere del re mandata dal proprio padre tra le braccia del sovrano per dargli un erede maschio, regina ambigua e mutaforme da cui sarà lecito aspettarsi grandi decisioni, anche in virtù dell’amicizia che la lega da sempre a Rhaenyra.
Fire and Blood di Martin è un libro di pura storiografia, splendida e fantasiosa contestualizzazione dell’universo di GOT: House of Dragon lo approccia filologicamente, romanzando le vicende con precisione e intelligenza. Winter will come, ma nel frattempo c’è ancora molto da raccontare.