Martha Graham, colei che nella prima metà del Novecento rivoluzionò la danza facendola evolvere a manifestazione artistica contemporanea, disse: “la danza è un canto del corpo, sia esso di gioia o di pena. E’ il linguaggio nascosto dell’anima”. Riflessioni passate che assumono uno straordinario valore attuale di sentenza e che nel film Houria di Mounia Meddour (distribuito in Italia da I Wonder Pictures) si fanno idealmente ispirazione.

Houria (Lyna Khoudri) è una giovane e promettente ballerina di Algeri che, dopo un grave episodio di violenza fisica, è costretta a rinunciare alla danza a causa di invalidanti lesioni, tra le quali, l’impossibilità di ballare e vocalizzare. Dopo la dolorosa accettazione e l’aver visto il proprio sogno sgretolarsi, la ragazza riesce a percepire il bisogno di accettare il nuovo corpo, uguale nella forma, ma non nella sostanza. Grazie all’aiuto reciproco con una comunità di donne nella medesima condizione, Houria riuscirà ad avvalersi del ballo per ricomporre, insieme alle altre, sé stessa, la sua fisicità e spiritualità martoriate.

Ed è in questa catarsi che la corporeità e il movimento, nell’accezione di binomio imprescindibile, divengono gli estremi di una metafora che pone al centro della questione narrativa qualcosa di molto più propulsivo del solo danzare, collocando come soggetto principale il corpo femminile in quanto terreno di discussione e di possibile emancipazione sociale e culturale.

In una società patriarcale e ancora misogina come quella algerina, dove le tradizioni incombono, le possibilità di affrancamento si affievoliscono e le libertà di espressione si annullano, ragazze come Houria sono simbolo di redenzione da una mascolinità aggressiva e non esente da una raffigurazione marginale e poco lusinghiera.

Houria (INK CONNECTION HIGHSEA PRODUCTION 2022)
Houria (INK CONNECTION HIGHSEA PRODUCTION 2022)
Houria (INK CONNECTION HIGHSEA PRODUCTION 2022)

Nel film, infatti, sarà la prepotenza maschile a disintegrare le ambizioni di Houria e a toglierle letteralmente la voce. Solo la solidarietà tra donne, anch’esse vittime di altrettante ingiustizie, la spingerà a lottare con i gesti e con la sola forza della mobilità percepita come autentico atto di ribellione. Il non suono viene sostituito dalla mimica dei segni che diviene pura musicalità e sovversione al sistema.

Ad aggiungersi al difficile contesto, senza tramutarsi in una giustificazione dietro la quale nascondersi, gli strascichi di un passato storico amaro, costituito da guerre civili ed attentati terroristici, mai del tutto interiorizzati e tutt’ora causa scatenante di sintomi post-traumatici.

Un mescolarsi di attualità e avvenimenti trascorsi, dietro lo sguardo attento di Meddour che predilige, anche questa volta dopo (e come) il precedente Non conosci Papicha (2019), ritrarre con onestà l’universo femminile combattivo, ma tristemente bloccato.

Nonostante la sceneggiatura sia a tratti prevedibile con alcune scelte sceniche ipotizzabili, la portata del messaggio e l’intento autoriale riescono a camuffare, mettere in secondo piano le piccole banalità della storia e a recapitare un’allocuzione fondamentale. Perché occorre muoversi insieme, ballare, che sia nell'acqua o su un terrazzo, perché solo l’unione tra anime resilienti potrà tener viva la speranza, affinché il futuro tanto desiderato e quel sole stilizzato con un pennarello sulla mano di Houria possano risplendere, ora più che mai.