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Una scena di Hostel
Prodotto da Quentin Tarantino, 46 milioni di dollari solo negli Usa a fronte dei 4 di budget, Hostel è l'opera seconda di Eli Roth (Cabin Fever). Trionfo di sangue e iper-violenza, il film riflette - nelle parole del regista - "la realtà orribile del mondo contemporaneo", che si traduce in occhi strappati dalle orbite, arti staccati, teste mozzate e strumenti di tortura. Quelli che attendono due giovani backpackers americani e il loro nuovo amico islandese in uno sperduto ostello slovacco, raggiunto nella certezza di trovarvi ragazze belle e disponibili. Non è facile - come nel caso degli horror meglio riusciti - oltrepassare il rigetto e la nausea veicolati da immagini quasi insostenibili per interrogarsi sul valore poetico-stilistico dell'opera. Se questo secondo stadio non è raggiunto, Hostel rimane un quasi-capolavoro per i cultori del genere, mentre si risolve in un attorcigliamento di budella per lo spettatore profano. Solo se si approda al sottotesto ideologico, è possibile vedere stampigliata sullo schermo la paura del vivere contemporaneo, come già nel Salò di Pasolini, nella Notte dei morti viventi di Romero o nel Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato. Qui è rintracciabile la valenza politica del film, il suo j'accuse della mercificazione sessuale, del vouyerismo della violenza, delle conseguenze letali del capitale nei Paesi ex-sovietici. Ma passare una notte nell'ostello di Roth rimane impresa quasi proibitiva.