Terra di confine – Open Range è stato il miglior western degli anni Duemila. Raccontava di cowboy agguerriti, mandriani senza paura e feroci proprietari terrieri. Ad appassionare erano lo scontro tra città e prateria, l’amicizia virile che ha animato tanto cinema del passato. Sembrava di guardare un grande classico, che omaggiava i capolavori di Howard Hawks (Il fiume rosso) e aveva fiducia nel sogno americano.

Il western nel tempo o si è sopito o si è fatto testamentario, ed è incredibile che qualcuno tenga ancora alta la bandiera portata avanti da maestri come John Ford. Il regista è Kevin Costner che, fuori concorso, ha presentato in anteprima al Festival di Cannes l’inizio di una nuova epopea: Horizon: An American Saga. Tre ore fluviali, in sala dal 4 luglio, ma questa è solo la prima parte. La seconda uscirà il 15 agosto, e altre due devono essere ancora girate.

Forse Costner è l’unico in questo momento a essere ancora innamorato del western, almeno a Hollywood. Non è un caso che la sua prima regia sia stata Balla coi lupi, nel 1990. Era la storia di un ufficiale dell’esercito nordista che abbandonava la civiltà per immergersi in una frontiera al crepuscolo. La sua “scoperta” era che gli indiani non erano selvaggi, ma esseri umani. Non era di certo la prima volta che i nativi si trasformavano in buoni. Soldato blu del 1970 di Ralph Nelson era stato tra gli apripista. Però nessuno come Costner ha una passione così viscerale per un’epica e una messa in scena che rievocano una Hollywood che non esiste più.

Per definire il suo punto di vista, si potrebbe citare una sequenza dello splendido Sentieri Selvaggi di Ford: John Wayne sulla porta che, dopo aver compiuto l’impresa, se ne va da solo. Non raccoglie i frutti del suo lavoro, l’eroe è solitario e dannato. Anche Steven Spielberg è stato colpito da questa potentissima immagine, inserendola in Salvate il soldato Ryan, quando la madre riceve la notizia della morte del figlio al fronte. Costner fa propria l’eredità di quei momenti ancora oggi insuperati.

Ma sa di non poter essere John Wayne e di non poter incarnare lo spirito degli anni Cinquanta. Non rifiuta l’evoluzione del genere avvenuta con una parabola in cui si possono citare da Sam Peckinpah con Il mucchio selvaggioGli spietati di Clint Eastwood, ma la rielabora. Porta l’oscurità all’interno del suo universo: i silenzi prolungati, l’assedio al villaggio che sembra arrivare da Distretto 13 di John Carpenter. L’avventura a cavallo è il suo pane, l’ambizione è inarrestabile. Chi oggi penserebbe di creare una saga sulla frontiera in cui ogni capitolo dura 180 minuti? Solo Costner, che realizza un film malinconico, che guarda a un passato che non c’è più.

Horizon: An American Saga
Horizon: An American Saga

Horizon: An American Saga

(Warner Bros)

Horizon è puro amore per il cinema, è il “cavalcarono insieme” contemporaneo, il Mezzogiorno di fuoco che riscalda ancora il cuore. Il mito del cowboy è ancora indomito, portato avanti da un manipolo di coraggiosi senza età. Lo ricordate Il cavaliere della valle solitaria di George Stevens del 1953? Non conoscevamo le origini dell’eroe, era un angelo con la pistola, pronto a riportare la pace per i giusti. Costner lo richiama, lo rende attuale, amplia l’orizzonte, come suggerisce già il titolo. Horizon è un luogo da raggiungere, un paradiso in cui insediarsi. L’ambizione è di dar vita a un western corale, in cui la serialità si mescola con il lungometraggio. In questo primo capitolo viene restituita la quotidianità del West, concentrandosi su tutti gli archetipi del genere. Molte linee narrative si intersecano. E Costner compare solo a metà film. Non ha fretta.

Svettano le carovane, i pistoleri, e un attacco notturno di furente impatto. È come se in Horizon si unissero tradizione e progresso. Nell’epoca delle saghe su piattaforma, Costner riutilizza quel modello narrativo per scatenarlo su grande schermo. Sarà la rinascita del genere? Forse. Per quanto riguarda i videogiochi, è già successo con Red Dead Redemption. Magari i puristi storceranno il naso, specialmente per una storia che non ha fretta di svelarsi. Nelle peripezie di ognuno dei protagonisti si nascondono molte sottotrame. L’ambizione è quella di costruire un film/mondo, creando un franchise, e immergendosi in un progetto su cui l’autore lavora da decenni.

Il vero motore di Horizon è il dinamismo. Chi conduce un’esistenza stabile viene sradicato, chi ha la giubba ed è pronto a trasformarsi in un cavaliere del Nord Ovest deve confrontarsi con il suo lato romantico. I fuorilegge sono pronti a evocare l’inferno, il cowboy errante è sempre in sella ma, almeno al momento, manca lo sceriffo corrotto. Horizon si propone come un’esperienza, a cui affidarsi gradualmente. Potrebbe essere la genesi di qualcosa di memorabile. Costner, alla proiezione ufficiale sulla Croisette, si è commosso e, dopo i titoli di coda, ha dialogato col pubblico, andando controcorrente. Di solito ci si ferma agli scroscianti applausi. Il regista invece, oltre a ringraziare, ha detto di essere già oltre e che a breve girerà il terzo e quarto capitolo in contemporanea. Le potenzialità del western le padroneggia, magari è in arrivo una rivoluzione. O almeno è bello crederci.