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Homegrown (2024)
Se con Civil War di Garland potevamo ancora fingere che la guerra civile americana fosse un’ipotesi di laboratorio, un’allucinazione fanta-distopica propinata dalla macchina hollywoodiana, Homegrown spazza via ogni foglia di fico: l’assedio a Capitol Hill del 6 gennaio 2021 non è stato l’ebbra follia di un giorno, una pagliacciata sfuggita di mano, tutto sommato isolata e difficilmente ripetibile, ma il sintomo drammatico di una malattia ancora in corso, altamente virulenta, che minaccia di morte la più grande democrazia al mondo.
Il reportage del filmaker Michael Premo, in gara alla SIC, segue tre attivisti di destra, appartenenti al gruppo dei “Patrioti” (ma sarebbe più corretto chiamarle “milizie”, visto l’abbigliamento militare e l’equipaggiamento in armi), mentre attraversano il Paese nell’estate del 2020 per portare il loro sostegno alla campagna elettorale di Donald Trump. Si tratta di un futuro papà del New Jersey con una somiglianza impressionante con Shia LaBeouf; di un ex veterano dell’Air Force One che organizza sit-in a New York; di un carismatico movimentista del Texas, con posizioni poco ortodosse al punto da immaginare addirittura un’alleanza con la costola locale del Black Lives Matter.
Del resto, le cose non sono così semplici come ce le raccontiamo in Europa. Il gruppo dei Patrioti è molto eterogeneo, al suo interno troviamo frange “black” e omosessuali dichiarati. Ad accomunarli, oltre alla fede cieca nel condottiero Trump, è l’odio verso il progressismo, tacciato di comunismo; la lotta all’immigrazione messicana; la contrapposizione violenta ai movimenti anti-sistema (la protesta black, la cancel culture, il wokismo, l’attivismo lgbtqia+) e l’insofferenza verso un’America infiacchita come potenza e debosciata quanto a valori. Non si riconoscono nell’etichetta di “fascisti” ma si definiscono gli unici veri tutori di una supposta patria originaria, pura, capitalista e ben protetta dai venti della Storia, per la cui difesa sono disposti a menare le mani, sparare e ovviamente morire.
Michael Premo, che prima di essere un regista è un giornalista e prima di essere un giornalista è un attivista (ha avuto un ruolo di primo piano, rischiando il carcere, sia in Occupy Wall Street che in Occupy Sandy, al fianco di quanti avevano perso tutto per colpa della finanza e dell’uragano), è stato con loro per mesi e mesi registrando confessioni in primo piano, discussioni politiche, parate, manifestazioni, in un crescendo fanatico di recriminazioni e contrapposizioni che sfoceranno nei fatti del 6 gennaio. Premo, che pure è afroamericano e ha dichiarato di essersi sentito più volte in pericolo di vita e di essere stato minacciato di rapimento durante le riprese, riesce a mantenere una presa oggettiva sul racconto, al limite della neutralità ideologica. Una posizione che, se da un lato ripropone la questione dell’etica del documentario e della sua pretesa di realtà, dall’altra si giustifica con la necessità dell’embedding profondo, in assetto mimetico.
Il risultato resta a metà strada tra il documento storico e l’instant movie, con la straordinarietà delle riprese della rivolta di Capitol Hill, vista dalla parte degli insorti, immagini che ci buttano nella mischia restituendoci la tensione di quei momenti e l’ineffabile precipitare nella violenza. Un evento che farà da spartiacque nei destini dei tre protagonisti, lasciandone in sospeso il giudizio (quello umano, non quello penale). Trump si vede poco e niente, ma il trumpismo è invece ben evidente negli oltre cento minuti del documentario, con le inquietudini e il malessere che lo attraversano e che minacciano di sopravvivere allo stesso candidato repubblicano. A due mesi delle delicate elezioni americane, Homegrown ci permette di guardare in faccia all’elefante nella stanza della democrazia con più consapevolezza e anche meno pregiudizi. Ma non certo con meno preoccupazione.