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Oggi Ali Abbasi è un cittadino danese, ha esordito nel 2016 con l’horror Shelly, poi nel 2018 il fantasy naturalistico Border che vince Un Certain Regard. Con l’opera terza Holy Spider (Les Nuits de Mashhad), in Concorso a Cannes 75, torna alla sua terra di origine, l’Iran, dove viveva ancora all’epoca dei fatti: 2000, 2001, il titolo fa riferimento al soprannome del serial killer, Saeed Hanaei (Mehdi Bajestani), che nella città sacra di Mashhad uccide sedici prostitute giudicandole "impure". Il processo suscitò scalpore, doppio: per l’efferatezza dei delitti, come un ragno Saeed attirava le vittime in casa, la sua tela, e le strangolava con i loro stessi chador, e perché la parte più conservatrice e retriva dell'opinione pubblica, e dei media, eresse l’assassino a eroe.
Sul progetto ci ha lavorato per quindici anni, l’ha poi scritto con Afshin Kamran Bahrami, cercando di allargare gli orizzonti della ricostruzione e della rievocazione: “Col tempo, mi sono permesso di prendere le distanze dai fatti perché sentivo che questo caso non riguardava solo Saeed. Si stava parlando di misoginia”.
Lo specchio è la società iraniana: non è deformato, ma distante sì, giacché il soggetto non ha permesso di girare in patria, e le location sono infine state quelle di Amman, Giordania. Si tratta, invero, di un unicum: il primo noir persiano su un serial killer iraniano.
Tanta roba, sì, o almeno inedita. Ma inedita a quelle latitudini: vogliamo essere brutali? Ebbene, Michael Mann e David Fincher, Jia Zhang-ke e Diao-Yinan, per dirne solo qualcuno, hanno fatto di meglio, decisamente. È un problema? No, ma bisogna capirsi: lo fa il valore cinematografico intrinseco, l’inserimento nella competizione del principale festival al mondo, oppure l’indicazione geografica tipica, la rilevanza tematica, la ricaduta sociale?
La domanda, ovviamente, è retorica, ma “il primo film su” può non avere alcuna precedenza sul piano strettamente critico, ed è il caso di Holy Spider. Purtroppo.
Parte anche bene, poi la routine familiare e omicida di Saaed stinge, e nemmeno esaltano le indagini della giornalista Rahimi (Zar Amir-Ebrahimi), cui tocca il contraltare femminile al mostro della porta accanto e, sebbene venga assimilata, il contraltare professionale rispetto alle prostitute: tutto molto, ma lo avete capito già, prevedibile, anzi, già visto.
Buone le musiche zimmeriane, non male nemmeno gli attori, ma la presunzione più che l’ambizione di Abbasi, ribadiamo, è quella di chi è arrivato uno anziché primo. Perché la non detection (sappiamo subito chi sia l’omicida seriale), perché le coordinate di genere rimaneggiano le considerazioni psicologiche, quelle di un Asghar Farhadi, per dirne uno, e il primato dell’intenzione lascia il film suddito.
Con una teoria di luoghi comuni: la condizione della donna, l’influenza religiosa sulla vita civile, la perniciosità del potere, e via dicendo. Ma sono temi messi in fila e in bella mostra, e lì finisce: non c’è nulla di disturbante, nulla di corrosivo, il fuoricampo sgombro di inquietudine, la mostrazione e più non dimandare. Il resto è di competenza degli 883, della loro hit più famosa.