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Holy Shoes
Sacre scarpe, ma, se la spiritualità non è pervenuta, l’accostamento rivela la persistenza di un mistero che, nella sua luccicanza, appare accessibile. Lo vediamo subito, nella prima sequenza di Holy Shoes (Fuori Concorso al 41° Torino Film Festival nella sezione La prima volta) la scarpa come reliquia da saccheggiare, le mani che emergono dal buio per depredare il simulacro, il sogno che configura l’atto osceno dell’appropriazione indebita.
All’opera prima da regista, Luigi Di Capua (tra i fondatori dei The Pills, già sceneggiatore per Maccio e due Smetto quando voglio) sceglie la scarpa come emblema del desiderio contemporaneo, intrecciando quattro personaggi che nel possesso di quell’oggetto intravedono la possibilità di emanciparsi da una vita insoddisfacente.
A far da collante a tre storie è la fantomatica Typo3, modello esclusivo che fa status: quella di Filippetto, un ragazzino di periferia che ne ruba un paio per far colpo su una compagna benestante; quella di Bibbolino, il rampollo di una famiglia altoborghese, costantemente umiliato e ridicolizzato, che cerca di darsi un tono smerciando sneakers tra i trapper; e quella di Mei, un’adolescente cinese che vede nel commercio clandestino un’occasione di riscatto per sé e il fratellino.
E poi c’è una quarta storia senza Typo3, dove le scarpe sacre sono un paio di Marmont nere con suole rosse: Luciana, una signora di mezz’età, dimessa nell’aspetto e rassegnata a un matrimonio senza passione, se le ritrova in mano per caso, dopo che la vicina di casa se ne disfa, e calzandole scopre una femminilità impensabile e una vita mai sperimentata. Sembrerebbe uno scarto rispetto al resto della narrazione, un pezzo slegato dall’avventura plurale della Typo3, ma ci dice qualcosa sul pensiero su cui si edifica Holy Shoes.
Ce lo dice soprattutto attraverso un momento in cui l’onirico si impone nel reale: il lancio delle scarpe dal balcone, un passaggio drammatico per la vicina di casa, agli occhi di Luciana diventa una pioggia inattesa, un messaggio dal cielo, l’epifania di un superpotere. Non è solo un’allusione (omaggio?) a un’altra singolare pioggia iconica (che era a sua volta una citazione biblica), ma anche un’immagine che testimonia quanto l’oggetto plasmi il desiderio e viceversa. E non è un caso che proprio a lei, corpo estraneo e divergente di una corale in cui non può riconoscersi, spetti il percorso più sorprendente: un personaggio da tipico film borghese italiano che prova a emanciparsi dal suo destino per scoprirsi figura carnale e al contempo surreale, trovando in Carla Signoris l’interprete ideale per la capacità di unire lievità e malinconia, misurando l’umorismo stralunato nel dolore discreto.
È vero, c’è il rischio che risulti fin troppo dissonante rispetto alle altre storie, ma, al di là della scarpa in sé, Holy Shoes (soggetto scritto da Di Capua con Luca Vecchi, sceneggiatura in collaborazione con Alessandro Ottaviani) è un film serio e amaro, che lavora su come il desiderio tiranneggi sul disperato bisogno d’amore e su quanto il consumismo – e le sue inquietanti e spesso impreviste versioni – cannibalizzi identità in fieri e fragilità eclissate dalla paura.
Di Capua guarda soprattutto oltreoceano, cercando la frenesia dei fratelli Safdie in una Roma stanca che si svela soprattutto nei parcheggi, non-luoghi che sembrano purgatori, dai ridicoli litigi di Bibbolino (un Simone Liberati ben calato nella tristezza di un reietto coi soldi) all’uscita romantica di Filippetto fino al duro pre-finale che sfocia nella straniante chiusura in bagno. E nell’essere irrimediabilmente pessimista è suo modo è un film nostalgico: di una società più civile, dove un sentimento che si fa carico della tenerezza (il fratellino cinese), dell’ironia (certe battute di Signoris) e dell’esercizio dello stupore (gli occhi dei più piccoli) soppianti la deprimente dittatura dell’individualismo.