Chissà se Claudio Giovannesi, quando ha scritto Hey Joe con Maurizio Braucci, ha pensato a Madama Butterfly. Nella celebre opera di Puccini un ufficiale americano sposava, non per sentimento ma per diletto, una giapponese. Lui poi salpava per gli Stati Uniti, lasciando la giovane a struggersi d’amore. Quando il militare sbarcava di nuovo nella terra del Sol Levante (questa volta con la moglie americana) voleva solo riavere suo figlio, spingendo la consorte orientale verso un tragico destino. In Hey Joe siamo a Napoli, nel 1944. Un marinaio conosce una ragazza, diventa padre, ma decide di non vivere la sua genitorialità. E a tornare, a differenza di Madama Butterfly, impiega trent’anni.

Lo sguardo è classico, ma lo spirito è moderno. Giovannesi resta fedele alle sue atmosfere, a una Napoli a tratti notturna, disperata, in cui sono più i sommersi dei salvati. Mette in scena un mondo criminale, non troppo lontano dalle venature tribali che colpivano in La paranza dei bambini. Descrive una paternità prima respinta, poi lasciata fluire, aggiungendo un tassello in più alla sua indagine sulle famiglie spezzate, sui legami di sangue che uccidono.

Quello di Giovannesi è un cinema di corpi, che si attraggono, si legano, per poi distruggersi. Anche in Hey Joe la macchina da presa raramente si allontana dai protagonisti. Li segue da vicino, per indicare che il giogo della colpa non lascia respiro. Il regista indaga i tormenti delle nuove generazioni, a partire da Alì ha gli occhi azzurri. I suoi personaggi sono spesso rinchiusi in una prigione. In Fiore le sbarre erano quelle di un carcere minorile, in La paranza dei bambini sono le mura del quartiere a regolare gli spazi. Le strade, i vicoli in cui si aggira James Franco sono luoghi senza via d’uscita. In un racconto morale, che si interroga anche sul perdono.

I film di Giovannesi sono costellati di piccoli gesti, silenzi esplosivi. Sono i dettagli a fare la differenza: una puntata di Star Trek alla televisione, un bacio rubato mentre Peppino Gagliardi canta Gocce di mare. Ed è partendo dalla musica che forse scaturisce anche il titolo: Hey Joe. È un brano del 1962 di Billy Roberts, ma i più lo conoscono per la cover realizzata da Jimi Hendrix. Si concentra su un uomo che vuole sparare alla sua donna, perché l’ha vista in giro per il paese con un altro. Dovrà poi fuggire, per evitare di essere impiccato. In qualche modo tra il testo e il film ci sono dei collegamenti: Joe ha “sparato” all’esistenza che avrebbe potuto avere. Per fuggire. E adesso il tentativo è di recuperare ciò che è andato perduto.

Hey Joe si muove in una dimensione claustrofobica, in cui l’unico elemento di salvezza è il mare: il figlio accetta le sue origini durante una tempesta, in una casa vicino alla spiaggia ci può essere rifugio dalla guerra. Allo stesso tempo è anche l’oceano che divide, separa. In un gioco di opposti imperfetto, a tratti slabbrato, ma che rende riconoscibile la cifra stilistica di un autore appassionato, che si mette al servizio dell’essere umano. E non è poco.