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HARVEST (Credits Jaclyn Martinez - Harvest Film Limited)
“Con questo adattamento del romanzo Harvest di Jim Crace abbiamo avuto la possibilità di esaminare il momento in cui tutto ha avuto inizio per noi che nel XXI secolo siamo eredi di una storia universale di perdita della terra. Per me, Harvest è un film sulla resa dei conti. Cosa abbiamo fatto? In che direzione stiamo andando?”. Cinematograficamente alla deriva, gentile Athina Rachel Tsangari.
La regista e sceneggiatrice greca, al quarto lungometraggio e nel glorioso e dissolvente ricordo di Attenberg (2010), piazza in Concorso a Venezia 81 Harvest, segnandone forse il punto infirmo: se la gioca, fin qui, con il mellifluo francese Trois amies.
“Harvest si svolge in un mondo liminale, e illustra le prime crepe della “rivoluzione” industriale. Che rivoluzione non è stata. Una comunità agricola viene sconvolta da tre tipi di forestieri: il cartografo, il migrante e l’uomo d’affari, tutti archetipi di cambiamenti sconvolgenti”, e forse la non mitologica Athina dovrebbe darsi alla non meno nobile arte della sinossi, ché la trasformazione audiovisiva, almeno qui, non le si confà.
Non funziona quasi nulla in questo “raccolto”, invero messe dissennata, congerie in cui non ci si raccapezza di moti contadini, spadroneggiar dei potenti, agrimensura vana ed eventuale, business ante litteram, incursioni corsare e routine strapaesana.
Nel corso di sette giorni allucinati - e uniformemente sbadigliati e/o abbioccati nella proiezione stampa in Sala Darsena - un villaggio innominato, tra Bosch e i Playmobil, in un’epoca e un luogo vagamente definiti il già cittadino e neo bifolco Walter Thirsk (Caleb Landry Jones, da non confondersi col tennista Andrej Rublëv) deve fronteggiare l’incipiente modernità, al pari dell’imbelle signorotto, meglio, young signorino Charles Kent.
Recalcitrante al sesso, più in generale riluttante alla vita, nondimeno Walter un poco se la comanda in virtù dell’estrazione urbana, ma il futuro traumatizzante che s’appalesa con la trinità migrante-affaristico-cartografica lo ridurrà a più disutili e labili consigli.
Fotografato in 16mm con più di qualche pregio, musicato (Nicolas Becker, Ian Hassett, Caleb Landry Jones, Lexx) con stile, Harvest fa di incertezza narrativa e irresolutezza poetica faro ideologico (in breve, anticapitalismo di risulta), incaponendosi per via para-archetipica in un’allegoria mai allegorica e, dunque, in un diorama senza quid.
Nondimeno, due cose sono dal salvare: la prima, a nostro sindacabile giudizio, golden shower letale della Storia del Cinema; la capocciata multipla del nostro Walter, epilogo e recensione insieme.