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Hannah
Una balena spiaggiata. Hannah, donna in là con gli anni, decide di andarla a vedere prima che la carcassa venga rimossa da lì. È in quello sguardo, in quella immagine-riflesso il senso del nuovo film di Andrea Pallaoro, che dopo l’esordio con Medeas (Venezia - Orizzonti, nel 2013), ha trovato stavolta il Concorso principale dell'ultima Mostra di Venezia.
Il regista trentino, ormai da tempo residente in America, pensa, scrive e dirige un film che è Charlotte Rampling, alla quale non chiede semplicemente di interpretare un personaggio, ma di farsi ella stessa film: Hannah è in ogni singola inquadratura, ogni suo respiro è quello che determina il battito emotivo della narrazione, del racconto.
Che è essenziale, minimale: in seguito all’arresto del marito, Hannah – che sembra non riuscire ad accettare la realtà che la circonda – rimane sola. Prova a condurre la vita di sempre, dal lavoro (le pulizie in una casa dove allo stesso tempo deve accudire un giovane cieco) alle prove di recitazione con il gruppo teatrale, passando per il nuoto libero e la voglia (non corrisposta) di tenere in piedi il legame con la famiglia del figlio.
È in atto un lento, graduale crollo emotivo e psicologico: quello che interessa a Pallaoro è provare a mettere a confronto questo sgretolamento privato con le relazioni umane e le pressioni sociali. Uno spaesamento, quello della protagonista, che il regista riesce a inquadrare con una messa in scena di grande rigore, lasciando spesso in fuori campo le voci e le situazioni circostanti, affidandosi a molti long take e a continue trasfocate.
Non ha bisogno di chissà quali parole, o superflue spiegazioni, il film: Pallaoro ama la sua Hannah in maniera incondizionata e non fa nulla per nascondere di volerla seguire, accompagnare, tenerle la mano, fin quando è possibile.
Per non lasciarla sola in questa solitudine così dolorosa. E Charlotte Rampling (Coppa Volpi a Venezia 74), al solito, si concede anima e corpo (letteralmente) in maniera straordinaria. Senza filtri, immensa.