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Hai mai avuto paura?
In fondo, ogni film in costume si fa per parlare del nostro tempo. Anche il primo Ottocento (fiabesco) di Ambra Principato conferma tale legge. O meglio, vorrebbe farlo, ma non siamo sicuri ci sia riuscito.
Primo lungometraggio per l’esordiente regista e sceneggiatrice, Hai mai avuto paura? rielabora Io venía pien d'angoscia a rimirarti (Einaudi, 2016) romanzo di Michele Mari dedicato, con licenza d’inventare, alla saga famigliare dei Leopardi.
Mettiamo subito le mani avanti, però, questo film non è una biografia storicamente ineccepibile del genio recanatese.
Non è Il giovane favoloso risciacquato nell’horror, insomma, ma un film ad altezza di bambini, i due fratelli minori dell’adolescente Giacomo. Siamo nel 1813: Pilla (Elisa Pierdominici) e Orazio (Lorenzo Ferrante) scorrazzano nella magione immersa nel verde al limitare del bosco (niente palazzo affacciato sulla strada, per l’appunto, come vuole la topografia del paese maceratese).
I due s’imbattono subito in delitti tanto efferati quanto inspiegabili, ma l’adolescente Giacomo (Justin Korovkin), immerso nelle sue mirabili letture, non presta loro grande considerazione.
Papà Monaldo, la contessa Adele, il curato e tutto il borgo, però, non possono non interrogarsi, sgomenti, sulla scia di sangue che sta decimando la comunità. Tra chi sprezza la superstizione (ancora il conte Monaldo) e chi ci si affida, tutti sono d’accordo: tanta, gratuita crudeltà non può essere opera umana, ma d’una Bestia, magari delle sembianze del lupo mannaro che setaccia il bosco ad ogni plenilunio fa strage di bestiame. Per questo, il sulfureo Scajajaccia (Mirko Frezza), ‘zingaro’ dall’occhio vitreo, offre i suoi servigi alla famiglia Leopardi per sterminare di notte la Bestia e ristabilire la quiete nel borgo.
Ma il conte Monaldo, raziocinante e sprezzante, rifiuta. Le sue pecore, così, finiscono in un mare di sangue, le vittime tra i popolani si moltiplicano, mentre il piccolo Orazio curiosando tra scaffali, soffitti e reliquiari di famiglia, si mette sulle tracce di una chimera sanguinaria radicata nella sua genealogia famigliare.
Proprio la scelta di abbassare la camera ad altezza di fanciullo, smorzando l’immediatezza del terrore e ammantandolo di seducente mistero, offre una novità di sguardo e un’icastica progressione tensiva alla trama.
L’addentrarsi stupito e incosciente dei due giovanissimi nelle viscere di un Male inconoscibile, reificato in una galleria mutante e inafferrabile di quadri, oggetti, disegni, incubi e premonizioni via via più inquietanti, rimane la cifra più riconoscibile di questo horror dalle mille suggestioni. Principato trapianta i semi più stereotipici della Storia (Giacomo ricurvo sui libri, segaligno, sprezzato dai genitori, inibito alle donne e all’esterno dalla madre) in un’immaginario fiabesco (il bosco, la luna piena, il servitore misterioso, i riti apotropaici, gli amuleti, la Silvia letteraria, resa candida vittima), per far fiorire un affresco atemporale di una famiglia disfunzionale profondamente infelice, con implicazioni e potenzialità discorsive attuali.
Ecco, dunque, un padre che oppone la Ragione e il prestigio sociale all’inarrestabilità del Male; una madre matrigna, castrante, proibizionista (di Tasso come della bella Silvia), e, come risultato, i giovani figli che cercando di comprendere, per contrarietà, il mondo in modo diverso, affidandosi a indizi sinistri, alogici, scoperte, pulsioni, desideri e premonizioni.
Un film ambizioso, mobile e aggettante, dalle varie spinte che, pure, sfoggia una certa maestria tecnica, una padronanza dell’impianto visivo del genere, ma forse tradisce uno squilibrio narrativo notevole dato probabilmente dalla fretta produttiva (ma è una nostra supposizione).
Lo sguardo registico, però, è lucido negli intenti, attento ai dettagli, oltre che ben saldo perché distaccato dalla cruenza delle scene (anche se non ci pare una scelta volontaria). Una prova sicuramente promettente, ma ancora acerba nella gestione della suspense (pensiamo soprattutto alle varie scene di assalto del mostro), e nell’incapacità di restituire piena risonanza emotiva ai personaggi, spesso ingabbiati, fin sui titoli di coda, agli stereotipi di partenza.
Un’opera, dunque, che rimane a metà del guado, in cui le parabole migliori - la madre flagellante e il buon villano – restano alluse e incompiute. Di più: Principato vorrebbe scacciare in un angolo la Storia, ma comunque lotta contro l’attualità. Vorrebbe mettere al bando tutte le istituzioni: cattoliche, feudali, scientifiche, ma se ne lascia sedurre e se ne serve per gran parte della storia.
Film ingordo di riferimenti (con anche ammicchi magari non solari, ma percepibili al graphic novel più gotico), smanioso di scuotere, inquietare e provocare (e non siamo sicuri che il finale sia il modo migliore per farlo), ma preda dei suoi squilibri, incagliato tra due epoche (primo Ottocento e Duemila) che forse si alludono, si occhieggiano, si cercano, ma non s
i affrontano fino in fondo.