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Una confessione. La morte di un padre, la figlia che parla con il prete prima del funerale. “Che uomo era?”. La memoria diventa ancora una volta protagonista. Nel cinema di Atom Egoyan il ricordo, l’identità arriva dal passato, è il cardine che fa funzionare l’intero ingranaggio. Si riavvolge il nastro, per ragionare sulla Storia, sull’Olocausto come in Remember o sul genocidio armeno in Ararat – Il monte dell’Arca. Ma tornare indietro significa anche indagare i segreti delle persone comuni, di chi ha sbagliato o di chi deve ancora trovare un motivo per andare avanti.
Egoyan ama perdersi nelle linee temporali. Costruisce flashback che si moltiplicano, che non smettono di evocare altre realtà. Il regista dà vita a una struttura piramidale, dove il presente è soltanto il tassello più piccolo messo in cima. Scava nelle fondamenta, affonda le mani nel torbido. “Chi era suo padre?”, uno come tanti.
Guest of Honour parte come una commedia, per poi frammentarsi. Si procede per ellissi, le situazioni si accumulano, i toni cambiano. Dai sorrisi si passa al thriller, fino quasi a sfociare nel grottesco. Il lutto è la via per riportare a galla i rimorsi, per chiudere con i traumi. Tradimento, suicidio, presunti rapporti con minorenni, prigionia: Egoyan non ha paura di osare, di spingersi oltre il limite.
Sembra un funambolo che cerca di non perdere l’equilibrio. Cammina sull’orlo del baratro, barcolla, ma in qualche modo resta saldo. Continua ad aggiungere, a lanciarsi in evoluzioni sempre più complesse, a incastrare tasselli a un puzzle potenzialmente infinito. Entra in un labirinto da cui è difficile uscire. Eppure alla fine riesce sempre a recuperare, a mettere in scena la fragilità umana, il senso di colpa. Intanto il corpo del genitore è disteso nella bara, ancora aperta. Non la si potrà chiudere finché tutto non sarà chiarito, almeno in parte.
È un dipinto dalle tinte scure, che rappresenta la solitudine, gli affetti perduti. Tutto si riassume nel discorso disperato alla festa di laurea. Il protagonista, ubriaco, con il microfono in mano, vede davanti a sé la felicità perduta, e condivide il suo dolore con un gruppo di sconosciuti. Nessuno è in grado di capirlo. Egoyan narra di un arcipelago di isole che non possono incontrarsi, si aggrappa all’interpretazione dei suoi attori, e sfida lo spettatore a seguirlo. Perché l’ospite d’onore è colui che accetta l’incredibile, si allontana dai canoni conosciuti, e sceglie di mostrare invece di nascondersi.