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Griselda
Chi si aspettava una serie stile Narcos, i produttori sono gli stessi (Eric Newman, Carlo Bernard e Doug Miro), rimarrà spiazzato.
La storia di Griselda Blanco Restrepo (Sofia Vergara, irriconoscibile), disponibile su Netflix, è ispirata a fatti di cronaca, ed è diretta dallo stesso regista di Narcos, Andrés Baiz.
Griselda, gangster colombiana, alla fine degli anni Settanta scappa per sopravvivere al marito violento e si rifugia a Miami. Lì incomincia a costruire il suo impero, che crollerà come un gigante di argilla per la sua insicurezza, la smania di onnipotenza e la dipendenza dalla droga, un delirio che porterà lei e i tre figli alla rovina. La serie inizia quando Griselda, cresciuta a Medellín con una madre alcolista, prostituta fin dall’adolescenza, fa il suo ingresso nel giro del narcotraffico di Miami. Convinta di poter assumere il ruolo di “jefe”, “capa”, immagina soluzioni brillanti per vendere la cocaina. Assume le ex compagne di lavoro (prostitute perlopiù) e le fa viaggiare con reggiseni ricolmi di sostanze stupefacenti (allora non c’erano perquisizioni né controlli di altro tipo), pensando di fare soldi a palate senza considerare l’esistenza di altri narcos sul territorio. Che non sono facilmente corruttibili o malleabili, al contrario sono spietati, soprattutto non vogliono lei come referente.
Ecco la parte più interessante, quella di una donna, bella e apparentemente e fragile, che reclama un posto tra delinquenti e assassini come fosse una di loro. Impresa impossibile sulla carta, invece realmente avvenuta (qui un po’ romanzata): in due decenni Griselda corona il suo sogno di diventare la “Madrina”, di cui persino Pablo Escobar aveva timore, e si impone come unica referente. Miami è nelle sue mani, conquistata nonostante ostacoli enormi, attraverso un cammino lastricato di morti e intuizioni intelligenti (far divertire i bianchi ricchi). Eppure non le basta avere tutto compreso il rispetto dei nemici, la diffidenza e la paranoia la trascineranno in una spirale di morte.
Sulle sue tracce c’è infatti June Hawkins (Juliana Aidén Martinez), analista di intelligence della polizia che sopravvive alla sua squadra composta di soli uomini. Mamma single, June lotta per convincere i suoi colleghi che dietro al cartello più potente di Miami ci sia una donna.
Le due figure, Griselda e June, sono le più interessanti di questa tragica vicenda. Entrambe devono combattere contro il sessismo che le circonda, farsi notare e temere, e solo una di loro vincerà. Grazie alla tenacia di June, Griselda infatti capitolerà: verrà scoperta e costretta a fuggire finché non sarà arrestata e morirà a Medellin nel 2012.
A parte i soliti cliché, la cornice patinata, che per fortuna mancavano in Narcos, la prova monstre di Sofia Vergara, nonostante il trucco, protesi e le ore spese a lavorare su Griselda, non è abbastanza forte da reggere il personaggio, e il ritmo della narrazione discontinuo non aiuta. Sempre a un passo da lacrime e follia, vittima di se stessa, insicura, disperata, non è la “Madrina” che crede di essere e di cui abbiamo più volte sentito narrare le gesta.