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Bocca con apparecchio ben visibile. I registi Jocelyn DeBoer e Dawn Luebbe ci fanno capire subito che è una questione di estetica. Tutti i loro personaggi hanno un sorriso smagliante, i denti perfetti, tenuti insieme dalla gioia di ogni dentista. Si baciano appassionatamente, e per un attimo ci si aspetta che si incastrino tra loro come ne Il tempo delle mele. Ma quella è un’altra storia.
Qui l’atmosfera è surreale: Wes Anderson incontra un John Waters ammansito, con una spolverata di Tim Burton e di Pleasentville, senza dimenticare il David Lynch di Velluto blu. Greener grass è un film delirante e geniale allo stesso tempo. Si parte con una riflessione sulla parola. Quello che viene detto non ha più importanza, ciò che conta è l’apparire. Una madre dona il suo pargolo a un’amica, e per sbaglio c’è anche uno scambio di mariti. Tutti si vestono allo stesso modo, dominano l’azzurro e il rosa. Prende vita un universo zuccherino, dove bisogna essere “perfetti” e sempre gentili.
Sembra di essere immersi in una soap stravagante, in una dimensione parallela dove le Desperate Housewives sono sull’orlo di una crisi di nervi. C’è chi finge una gravidanza con un pallone da calcio e scimmiotta Cast Away, i più giovani si trasformano in cani nell’indifferenza generale (The Lobster?), mentre un killer di insegnanti di yoga si aggira per la città. Ci si sposta con dei golf cart, e a ogni incrocio bisogna fermarsi, fare un bel respiro, e invitare il vicino a passare per primo.
DeBoer e Luebbe giocano con gli eccessi della società, con le idiosincrasie che diventano leggi. Le gelosie (“perché hai regalato tuo figlio a lei e non a me?”), i divorzi annunciati sulla buca delle lettere, il campo da calcio che si trasforma nel fulcro della vita di periferia. E poi la televisione. Per Douglas Sirk era una prigione in cui rinchiudere una vedova (Secondo amore), per DeBoer e Luebbe è lo specchio dell’isterismo collettivo.