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Franz Rogowski in Great Freedoom
1949. Germania. Il giovane ebreo Franz è passato dal campo di concentramento al carcere senza soluzione di continuità. Il motivo? La sua omosessualità. Il paragrafo 175, infatti, del codice penale teutonico, reprime il suo desiderio, anche se il ragazzo non ha nessuna intenzione di sconfessarlo. Tra castighi atroci, così, silenzi alienanti, relazioni fuggevoli, celle che cambiano a seconda della gravità delle punizioni, il detenuto stringe l'unica relazione stabile con il suo compagno di cella, Viktor (Georg Friedrich), che supera le ruggini e il disprezzo di partenza, fin quando Franz scopre casualmente, nel 1969, dalla copertina di Der Spiegel che il suo essere ebreo non costituisce più reato.
Sebastian Meise, in concorso a Cannes 74, dopo le indagini sulla pedofilia (Stillleben e il documentario Outing) scandisce in tre fasi (1945, 1957 e 1969) storiche, pubbliche un viaggio privato all’inferno e ritorno verso la libertà. Anzi verso la riconoscibilità collettiva della propria libertà.
Perché il protagonista è il prototipo dell’individuo, in anticipo, senza averne (forse) contezza, sugli avanzamenti della Storia, che non riconosce la culturalizzazione che il suo Tempo vorrebbe affibbiargli, eppure ci si deve sottomettere. Sbattendo contro il muro di gomma del Diritto, così, vive una conflittualità unidirezionale, senza per questo mai abbassare i guantoni: l’omosessualità come dato di Natura, la repressione come dato storicizzato. La visceralità della passione contro la glacialità della Legge. Il sesso contro il manganello. La fedeltà a sé stesso contro l’anonimia della repressione.
In questo tragico corpo a corpo, a tratti furioso, altri rassegnato, altri sospeso, sempre impreziosito da una pregevole ragnatela di silenzi, sguardi e occhi, Franz Rogowski (il nazista di Freaks Out e Waldlan in La vita nascosta-Hidden Life) regala una performance icastica ed emotiva, di grande impatto scenico che balcanizza la cinepresa grazie anche all’intensività della fotografia (Crystel Fournier, premiato agli EFA) abile a spaccare in due il piano visivo, invitando -anzi costringendo- lo spettatore a scoprire nuovi significati oltre i corpi, oltre le sbarre, oltre il bordo del visibile.
Film rigorosissimo e addolorato, sa portare a galla tutto il sostrato di denuncia e indignazione con la forza testamentaria e “civile” delle immagini. E lo fa, amalgamando al meglio il genere carcerario sulla strada del realismo. Senza sconti né compiacimenti scenici, Meise costringe lo spettatore a sguazzare angosciosamente in celle-latrine, in cunicoli-labirinti senza uscita.
Ne esce fuori un film (quasi tutto) rinchiuso in un unità di luogo che non ha paura di scavare nella brutalità, nella depravazione mista a orrore causata dalla reclusione. Il regista si prende tutto il tempo che può per denunciarla, mentre Franz la sdegna e il mondo, solo un ipotesi di là dalla cella, cambia, si evolve, si apre, si autoassolve, si sconfessa, rimuove (almeno apparentemente) la sua barbarie, fino a capovolgere lo spazio in un finale
tutto suggestioni cinematografiche e intuizioni di (grande) regia, lirico e paradossale.