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L'attesa attorno al nuovo lavoro di Alfonso Cuaron era enorme. Dopo sette anni di silenzio (I figli degli uomini era stato presentato sempre qui alla Mostra nel 2006, in concorso), il regista messicano tornava a battere un colpo con quella che era stata annunciata come un'autentica impresa cinematografica.
Tre anni di lavorazione (final cut rinviato più volte) per realizzare uno dei film di fantascienza più audaci e sperimentali degli ultimi anni. Tanto che gli esegeti della prima ora avevano già scomodato nomi importanti, Kubrick su tutti.
Diciamolo subito, dal punto di vista tecnico, Gravity non tradisce le attese. Non si ricorda a memoria di cinema, un'esperienza di visione così immersiva e coinvolgente, capace di abbattere la barriera dello schermo e di trascinare "fisicamente" lo spettatore nell'azione.
Sandra Bullock e George Clooney - lodevoli entrambi per la performance atletica prima ancora che drammatica (recitare in assenza di gravità non deve essere stata una passeggiata) - sono due astronauti in balìa del vuoto oceano cosmico, dopo che una pioggia di detriti ha distrutto la loro stazione spaziale: la loro terrificante deriva però è anche la nostra. Fluttuiamo via, verso il nulla siderale, cercando una corda, un pezzo di lamiera, qualunque appiglio che ci tenga in rada, vicini alla terra.
Visione in apnea, amplificata dall'assordante rintocco di respiri dei due naufraghi. Visione in soggettiva, faccia a faccia con le fauci nere dell'universo, pronte ad assorbirci, inghiottirci, e poi nulla. Visione in sospensione, perturbante, perché disancorata dalle coordinate dello spazio e del tempo.
Gravity lancia una sfida allo sguardo, invitandolo a decentrarsi, farsi da parte. E allo spettatore impone di slacciare le cinture e cancellare l'asse cartesiano del proprio dominio prospettico. Siamo privi di bussola, sospinti da una parte e dall'altra, presi nella vertigine di un movimento che non è più dettato dalla traiettoria dell'occhio, ma impresso da forze ineffabili, soggiogato e portato là dove non si può più pre-vedere quel che accade. La condizione di noi spettatori avverte uno smottamento, una perdita di aderenza, che parte dall'occhio e finisce per trascinare l'intero corpo.
Cuaron realizza un altro, impressionante tour-de-force stilistico, apponendovi qui e lì anche la firma (le goccioline di pianto e di sangue che vanno a spiaccicarsi sull'obiettivo, come ne I figli degli uomini). Ma trova fertile collaborazione nel direttore della fotografia, Emmanuel Lubezki, capace di dare un nitore mai visto a immagini in stereoscopia, e di incidere, sezionare, ritmare (più dell'assordante musica), con la pura forza della luce, un'avventura che si sviluppa in continuità (solo 156 inquadrature utilizzate per il film, con piani sequenza lunghissimi).
Il tempo si dilata, diventa epifania, mentre lo spazio (quello tra due punti, abitualmente misurato dall'uomo) si comprime fino - paradossalmente - ad annullarsi.
Là dove Gravity mantiene poco quel che promette è dal punto di vista contenutistico. Ci si aspettava una sterzata più decisa verso la fantascienza metafisica, visti i riferimenti a Kubrick di cui sopra (che lo stesso Alfonso Cuaron ha del resto sollecitato) e l'esile struttura drammaturgica dell'intreccio (due soli personaggi al cospetto dell'infinito). Invece il film sposa una narrazione più classica, hollywoodiana (del resto il progetto è targato Warner), una storia di rinascita (innumerevoli i rimandi visivi al tema del parto), esaltata dall'intensità recitativa della Bullock, con Clooney ridotto al ruolo di (ottima) di spalla.
Ma è indubbiamente la parte meno interessante di un'operazione che, più che dire, doveva mostrare. Tutto il resto è compromesso. Un ottimo compromesso.