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Grand Tour
Rangoon, Birmania 1917. Edward (Gonçalo Waddington), funzionario dell’Impero britannico, fugge dalla promessa sposa Molly (Crista Alfaiate) che arriva da Londra. Durante il viaggio, il panico di Edward cede alla malinconia, mentre Molly, decisa a sposarsi, lo insegue in un grand tour asiatico, esperienza in voga nell’élite europea all’inizio del XX secolo.
In competizione a Cannes 77, è Grand Tour del portoghese Miguel Gomes, già apprezzato per Le mille e una notte (2012) e Tabu (2015) e qui coprodotto dall’italiana Vivo Film.
Lavorazione avversata dal Covid, sicché a un certo punto il regista ha dovuto supervisionare l’inteso Grand Tour nel sud-est asiatico da remoto nella natia Lisbona, Gomes ha utilizzato le riprese in 16mm girate tra Myanmar, Singapore, Thailandia, Vietnam, Filippine, Giappone e Cina quale materiale di repertorio “al contrario” per una storia di cent’anni prima: una bella trovata, straniante e, sì, filosofica.
Non bastasse questo pastiche temporale, pregevoli sono le parti in studio, effettuate in Italia e Lisbona, e gli inserti marionettistici, che astraggono il distanziato passo a due di Edward e Molly, così aderente ai canoni screwball, in una dimensione uber-storica, quasi allegorica, ineluttabilmente paradigmatica, laddove vigliaccheria maschile e autodeterminazione femminile si stampigliano come tratti di genere – e dunque stereotipi.
Ma in Gomes, che muove da Somerset Maugham (Il signore in salotto) per incontrare la temperie di Lav Diaz e financo i gorgheggi di Wong Kar-wai e le relazioni di Kim Ki-duk, c’è una complessione drammaturgica, una facilità narrativa e una trasfigurazione poetica con pochi eguali, capace di manipolare con garbo e nitore non solo il visibile, ma il temporizzabile, facendo di Grand Tour ritorno al futuro e, più, macchina del tempo. Sopra tutto, elegia di un dispositivo, il Cinema, irriducibile alla realtà, devoto all’immaginazione, concesso al sogno. Non per tutti, ma un Grand Tour prezioso.