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Good American Family
Quando una storia vera è talmente surreale da venire raccontata sottoforma di fiction, si crea un cortocircuito per il quale verità e finzione si mescolano senza avere sempre contorni ben definiti. Ancora di più se il fatto di cronaca in questione è l’adozione di Natalia Grace, una bambina affetta da nanismo, da parte di una coppia del Midwest: un evento banale divenuto presto eccezionale quando, ad un certo punto, la coppia si era resa conto che forse la bambina era molto più grande di quanto diceva di essere.
Tanto che Ellen Pompeo, da un ventennio Meredith Grey, ha voluto appendere il camice per produrre e mettere in scena questa storia. Insieme alla sceneggiatrice Katie Robbins ha scelto di mostrare i tanti punti di vista del racconto: quello di Kristine e Michael Barnett ma anche quello della stessa Natalia, nonché delle altre madri coinvolte. La scrittura incisiva dai dialoghi asciutti, e la regia invasiva a metà tra documentario e thriller, provano a mostrarne tutte le prospettive.
Il risultato però è troppo di parte a favore dei genitori e contro la donna-bambina. L’aspetto più interessante lo racchiude Pompeo, che ritrae una donna che gode nell’apparire la madre impeccabile alla guida della famiglia perfetta, che vive di applausi e riconoscimenti come Campanellino ma che allo stesso tempo è figlia dell’ambiente sociale e genitoriale in cui è cresciuta. Non la solita critica alla borghesia americana, ma un ritratto molto più cinico e crudele sulla maternità.