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Godland
“È terribile. E bello”.
C'è un momento nel bellissimo, terzo lungometraggio di Hlynur Pàlmason, che restituisce un'epifania sconvolgente: la piccola Ida che copre con la mano l'occhio di una gallina prossima alla fine mentre la sorella maggiore ne sta uccidendo un'altra.
È il confine tra il visibile e il non visibile, il mistero che separa il conosciuto e l'ignoto, l'immagine e la sua rappresentazione.
Non è dunque un caso se l'idea di partenza del film sia il reale ritrovamento di alcune immagini, sette fotografie rinvenute accanto al cadavere di un prete nell'Islanda di fine Ottocento.
Uno spunto che basta al regista di A White White Day per costruire un racconto apparentemente semplicissimo, dalla resa però straordinaria.
Un giovane prete danese viene incaricato di una missione: raggiungere una parte remota dell'Islanda, fotografare la sua gente e costruire lì una piccola chiesa. Ma più si addentra nel paesaggio spietato, più si allontana dal suo scopo, dalla sua missione e dalla sua moralità.
Lucas (Elliott Crosset Hove, che nel 2017 recitò nell’opera prima di Pàlmason, Winter Brothers) si imbarca dunque in questa avventura, accompagnato da un interprete, al quale si aggiunge un gruppo di indigeni capeggiato da Ragnar (Ingvar Sigurdsson, bravissimo, già protagonista del precedente, già citato A White White Day).
Una distanza abissale.
Non è solamente quella che costringerà il prete ad un viaggio massacrante, che lo cambierà per sempre, ma anche quella tra gli usi e il linguaggio di colonizzatori e colonizzati (l’Islanda acquisì la propria autonomia dalla Danimarca solamente dopo la II Guerra Mondiale).
Adottando l'aspect ratio di 1.33:1 e con il contributo decisivo alla fotografia dell’abituale Maria von Hausswolff, il regista islandese – che per sua stessa ammissione ha da sempre diviso la sua vita tra la terra natale e la Danimarca – ci trasporta letteralmente lungo un cammino dai panorami mozzafiato e al tempo stesso impervi, estremi, una terra gelida in alcuni passaggi, paludosa in altri, senza alberi e vulcanica (la sequenza dell’eruzione con il magma che ricopre ogni cosa è da antologia): in poche parole “inospitale”.
Ed è la sensazione - quella dell'inospitalità - che comincia a far deviare le intenzioni primordiali di Lucas, spinto da un entusiasmo iniziale che però poco a poco lo allontana dal monito del sacerdote danese che gli aveva affidato questa missione: “Devi adattarti alla gente del posto e alle loro usanze”.
Pàlmason in fondo mette in chiaro le cose sin da subito, offrendoci la duplice versione del titolo del film tanto in danese (Vanskabte Land) quanto in islandese (Volaða land): la traduzione internazionale Godland (Terra di Dio) si discosta e non di poco da quel (doppio) significato, “terra malformata”, che di fatto è il modo in cui la percepisce il giovane prete.
In fin di vita riesce comunque a giungere a destinazione: “Ma perché ha fatto questo lungo viaggio quando potevate salpare direttamente qui?”, gli chiede il danese Carl (Jacob Lohmann), l’uomo nella tenuta del quale andrà costruita la chiesa. Con le due figlie, la piccola Ida (Ída Mekkín Hlynsdóttir, anche lei già protagonista di A White White Day) e Anna (Vic Carmen Sonne, era in Winter Brothers), che in modi differenti finiranno per affezionarsi a lui.
Ma quel lungo viaggio, che doveva servire per catturare immagini e conoscere meglio le persone del luogo, ha restituito invece a quella “terra malformata” un uomo cambiato per sempre.
Che sulla barca prima di arrivare prova con difficoltà ad ascoltare la lunga lista di vocaboli con cui si può dire “pioggia” in islandese, e che ogni volta ricorda a Ragnar – che si ostina a parlargli nella propria lingua – di non comprenderlo: Lucas doveva adattarsi a quella gente e alle loro usanze, ma è una fatica che neanche il Signore riesce a fargli compiere.
È ovvio che l’argomento profondo, quello a cui Pàlmason tiene di più, sia l’impossibilità di un dialogo reale tra la sparuta popolazione locale e i nuovi arrivati, "padroni" danesi, cosa che emerge con forza anche durante la cena a casa di Carl, con quest’ultimo che pronuncia una battuta sferzante su Ragnar dopo che inavvertitamente ha rovesciato del vino a tavola.
Bressoniano nella forma (e perché no, anche nella sostanza), Godland è un film per certi aspetti straordinario, capace di calamitare lo sguardo dello spettatore grazie ad una serie di scelte che alternano senza manierismi le camere fisse sui vari “passaggi” della natura (meraviglioso quel timelapse per mostrare il corpo del cavallo in decomposizione) e movimenti circolari che catturano “l’intorno” di situazioni differenti (si pensi alla festa di matrimonio in cui la macchina da presa si allontana lateralmente da Ragnar che suona la fisarmonica per poi ritornare a lui dopo un lento giro a 360°).
Ancora una volta, dunque, ma con una maestria differente, Pàlmason ragiona sulla natura brutale e al tempo stesso meravigliosa (“è terribile. E bello”…) e su quanto allo stesso modo la natura degli uomini sia capace di imprevedibili slanci e limitazioni insormontabili, facendo riecheggiare suggestioni che riportano anche a Jauja di Lisandro Alonso, che otto anni fa il Festival di Cannes ospitava in Un Certain Regard.
Come allora, sarebbe servito più coraggio e inserire un film come questo in Concorso. Dato che ad oggi è – insieme a Bellocchio – la cosa più bella vista al Festival.