PHOTO
Enrico Ghezzi in Gli ultimi giorni dell'umanità
Abel Ferrara, Alexander Sokurov, Bela Tarr, Jean-Marie Straub & Danièle Huillet, Carmelo Bene (stilettato dalla critica) e The Dreamer Bernardo Bertolucci, Corman, Peckinpah. E poi Nennella Bonaiuto, Aura, Martina, Aldelchi Ghezzi.
Presentato alla Biennale di Venezia 2022, ora in sala grazie a Cineteca di Bologna, Gli ultimi giorni dell’umanità (titolo sfilato a Karl Kraus?) è una summa poetica ed epica del mondo di enrico ghezzi (con la complicità di Alessandro Gagliardo, co-regista).
Volti, parole, panorami, scenari. Un flusso ininterrotto di immagini eterogenee, saldato per associazioni concettuali che sbriciolano le distinzioni artistiche ed estetiche dei modi e i sensi di riproduzione filmica.
In tre ore abbondanti di doc (una durata monumentale che occhieggia alle quaranta ore de La magnifica ossessione, in onda su Rai Tre negli anni Novanta) si rincorrono, si accavallano e si abbracciano in senso tanto nostalgico quando documentario le traiettorie e i sensi della cinefilia di Ghezzi. Biografia, cinema e indagine si confondono, fino a diventare un unicum indistinguibile. Cineteca e documentario, home movies famigliari – la piccola Aura spiata dal buco della serratura – e i lacrimogeni tra la folla del G8 di Genova (“non aver paura” sussurra ancora il padre alla figlia), archivi personali e collettivi, autori e spettatori in dialogo.
Ghezzi – ideatore, regista, a sprazzi anche narratore, e poi cameramen, persona e personaggio, spettatore – ascolta e contempla, si espone, ordina e si impone sul senso e sul valore – insieme estetico e politico - delle immagini. Le plasma e le risemantizza attraverso cortocircuiti di cinematografie sideralmente distanti che danno al flusso (torrenziale, ma mai disarticolato) del discorso svolte di senso altrimenti impredicibili. L’occhio che vede, indaga, ritaglia, riassembla nel senso più privato e confessionale, per paradosso allestisce una fenomenologia fantastica dello sguardo nel Novecento. Dell’imprimatur che il cinema ha impresso al secolo breve, percorsa da un ineliminabile senso di impero alla fine della decadenza, di straniante sfaldamento, di sfiducia nell’avvenire, di crepuscolo dell’esistenza che coincide con il crepuscolo del pianeta.
Eruzioni vulcaniche, bombe, sparatorie, incendi (sempre dei cinema), si rincorrono e assediano anche le immagini più vitali e gioiose. Su tutte spicca la figlia Aura come centro di gravità ricorrente, anzi permanente, sì perché l’amico Battiato rimane un sottotesto ora alluso, ora seminato, dunque costante nel tessuto sonoro del film–vita. Se prima ci spiava dalla serratura, ora leggendo Kafka, sfida la camera e noi tra primi piani dolenti e aurorali. Declama artisticamente la persistenza della memoria, la sconfitta del reale, la resa del cinema di fronte alla devastazione del mondo. E la sua immortalità.