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Gli oceani sono i veri continenti
Passato e presente. Resistenza di (in) un luogo, spinta verso un domani altrove.
Sullo sfondo di una Cuba decadente e in un bianco e nero lacerato dalla pioggia caraibica, i giovani Alex e Edith, l’anziana Milagros e i bambini Frank e Alain, vivono la loro vita, fatta di piccoli gesti quotidiani, racconti del passato e sogni di futuro. Mentre lo spettro della separazione aleggia su tutti loro.
Era uno degli esordi più attesi del cinema italiano, questo di Tommaso Santambrogio, che espande un suo progetto precedente, il corto Gli oceani sono i veri continenti (ora film che apre le Giornate degli Autori a Venezia 80, da domani 31 agosto in sala con Fandango), partendo da un'immagine rimasta impressa nella memoria del regista, all'epoca bambino di 8 anni, che arrivato a Cuba vide il commovente abbraccio tra un padre e una figlia che stava per lasciare l'isola per sempre: "Il film verte sulla tematica della separazione, raccontata e affrontata tramite tre prospettive temporali differenti (passato, presente e futuro) sineddoticamente rese attraverso le tre narrazioni principali", spiega Santambrogio.
Classe 1992, il regista deve molto della sua formazione all'incontro con Werner Herzog ma soprattutto con Lav Diaz: non è dunque un caso se le più forti assonanze stilistiche, la tendenza a creare un'epica partendo dalle piccole cose, la capacità di evocare con ogni singola inquadratura, riportino alla mente il cinema del maestro filippino, che proprio con Santambrogio aveva già partecipato nel recente documentario mediometraggio Taxibol.
"Il film è estremamente legato ai luoghi e ai personaggi, veri e propri pilastri di un universo immaginifico a cui ho dato forma dialogando costantemente con la realtà e con la memoria (individuale e collettiva) cubana. Il metodo utilizzato per la sua ideazione è stato di ricerca antropologico-storica; ho passato diversi anni a osservare e interagire con le persone del luogo, ad ascoltare le loro storie, capire come elaboravano eventi e traumi nella loro vita, come si approcciavano al 'lutto' determinato dalla separazione dalle persone più care".
Il luogo è San Antonio De Los Baños, paesino dell’entroterra di Cuba dove sembra che il tempo si sia fermato, i personaggi (le persone) - Alexander, Edith, Milagros, Frank e Alain - "hanno contribuito fortemente a livello creativo emotivo all’ideazione del film, e anche durante le riprese è stato loro lasciato un grande margine di improvvisazione e spontaneità", dice ancora il regista, che spoglia dallo stereotipo di colorata felicità la natura dell'isola cubana (notevole il bianco e nero della fotografia curata da Lorenzo Casadio Vannucci, che quasi crea un ponte con quel meraviglioso capolavoro che era Soy Cuba, film che Michail Konstantinovič Kalatozov realizzò nel 1964, nato come manifesto propagandistico antiamericano e a sostegno della rivoluzione castrista), trovando nella poesia dei silenzi, dei suoni e del continuo dialogo tra elementi naturalistici e storici la maniera di far scorrere le esistenze di questi personaggi.
L'arte - quella del teatrante Alex e della burattinaia Edith - per inquadrare i ricordi e tentare di cambiare le cose, il gioco e l'immaginazione dei due ragazzini (che meraviglia quella sortita notturna nel campo da baseball...) per sognare senza soluzione di continuità, la resilienza dell'anziana Milagros, che per campare vende i coni di noccioline e trascorre le sue giornate ascoltando la radio e rileggendo le vecchie lettere dell'amato Miguel, partito a fine anni '80 con l'esercito cubano per intervenire nella guerra civile in Angola.
Saranno tutti lì, alla fine, su quella banchina del treno: qualcuno partirà per sempre, qualcun altro rimarrà seduto ad aspettare chi (un amato, o un padre), invece, non tornerà più.
Commovente. E bellissimo.