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La giovane Chiara lavora come tecnico delle luci in uno spettacolo di teatro-danza: in scena ci sono le Baccanti euripidee. Ama, ricambiata, la fidanzata, ma un rivolo di inquietudine mista a incomunicabilità inonda le sue giornate, dietro le quinte come tra le mura di casa. Rivolo che diventa torrente quando papà Vittorio, senza più lavoro, ripiomba nella sua quotidianità. Perché oltre la necessità di riannodare un rapporto logoro, la ragazza scopre le sue allarmanti condizioni di salute così da trascinarlo in un cascante, grottesco ospedale in cerca di cure.
È il microcosmo privato e pubblico, intimo e politico de Gli Immortali che, dal realismo sociale trasvola verso l’inconscio interiore e il dramma collettivo, per elevarsi anche ad allegoria del dolore. A sostanziarlo densi echi autobiografici riallestiti con audacia inventiva, semplicità stilistica, empatia narrativa da Anne Riitta Ciccone.
Un’opera stratificata, dunque, di rimandi mitici, di risvolti simbolici, di dramma (Le baccanti) e cantautorato (Edoardo Bennato), di fantasmagorie e lutti, di cupezza tragica, di sgomento mai slegato dal sentimentalismo, vero collante che cuce le molteplici, tangenziali rotte narrative di questo soggetto (sceneggiatrice è la stessa regista, montatore è invece il sodale Lorenzo d'Amico de Carvalho).
Lavora per libere associazioni Ciccone, compone per connessioni, contamina i generi alla ricerca di un’autenticità estranea a gran parte del cinema contemporaneo nostro: parte e torna al mito, cerca la favola nera, bordeggia la satira sociale, trova il melò familiare e familista. Eppure, tenendo dietro a tumulti e increspature emotive di Chiara, riesce a disegnare un cinema aggettante, capace, di scorcio, di interrogare le assurdità del presente, di sbertucciare le derive e l’insospettabile disumanità del nostro sistema sociale (sindacati kafkiani, burocrazia del grottesco, malasanità imperante).
Ma sono bersagli in transito, perché epicentro del film sono i legami famigliari, unica àncora in un mondo alla deriva. Le baccanti è, in effetti, tragedia anche della genitorialità caina e sconvolta in una Tebe senza più armonia. E s’innesta, come quella di Ciccone, sullo sconvolgimento di un apparente equilibrio sociale che spinge all’abisso i suoi protagonisti.
In equilibrio tra nostalgia per il tempo perduto (l’ambientazione di fine millennio a braccetto con gli home movies famigliari e post-sessantottini in flashback) e l’elaborazione delle storture del presente (la pandemia da Covid-19, stilizzata in un letale virus che aleggia dall’ospedale), Ciccone s’interroga sul destino spirituale dell’essere umano in rapporto al divino (la domanda sul non intervento di Dio, anzi sugli dei che sono lontani come recita un copione, di fronte alla sofferenza umana).
Passato in sezione Freestyle all’ultima Festa del Cinema di Roma, Gli immortali invoca e cerca ricuciture, saldature, ricomposizioni, a tutti i livelli, nelle comunità umane come tribù (la famiglia, il gruppo di attori, i medici, il sindacato) e oltre lo scorrere inarrestabile del tempo. Ciccone cerca l’anello che tiene, l’attimo di grazia prima della sconquasso. Le già ricordate Baccanti, allora, diventano cornice narrativa sì, ma anche evocazione a tappe, opera diffusa e manifestazione simbolica della mente di Chiara; la sua famiglia è interculturale sì, ma lontana e divisa; l’amore chiede in pubblico di essere adombrato per poter essere vissuto in privato; i cenciosi, isolati profeti di sventura cantano nel vuoto.
Tutto questo per arrivare a ricucire le incrinature di un rapporto padre-figlia (e un rapporto moglie-marito) che, nell’incombenza e nella reciproca inadeguatezza, chiede una pacificazione che rimane in bilico tra la vita e la morte, tra la dolcezza della memoria e il dolore del presente.
Ciccone conferma la capacità di fare della narrazione sincretismo culturale, laccio di galassie lontane, manifestazione a-logica dell’Io e suo confessionale. Così, tra i dialoghi essenziali e silenzi sospensivo-riflessivi si staglia la dolenza spigolosa di Gelsomina Pascucci, come la sardonica ironia post-sessantottina (votata in dramma) di David Coco. E convince anche Beniamino Marcone, in versione Azzecca-garbugli bavoso e corrotto.